giovedì 31 luglio 2014

SPAGHETTI STORY

Sarà che mi sono seduta all’Arena di Garbatella già ben disposta verso questa commedia dolce-amara, che sapevo aver riscosso un discreto consenso nonostante il low budget. Sarà che conosco Valerio, il protagonista, che è veramente un attore in erba, che faceva il cameriere in un noto locale in zona Ostiense e quindi tutto ciò rende ancora più credibile la storia di chi passa dal servire ai tavoli al grande pubblico in sala (cinematografica a questo punto). Sarà che ci sono gli Spaghetti di mezzo nel titolo come nel mio Blog, e il tutto rimanda a storie che trasudano semplicità e amicizia (a basso costo), ergo non potrei non promuovere Spaghetti story a pieni voti.
Il film, primo lungometraggio del regista romano Ciro De Caro, racconta a modo suo uno spaccato della precarietà giovanile, e lo fa in maniera genuina e autentica. Costato solo 15mila euro, per girarlo ci sono voluti solo 11 giorni ed è stato realizzato utilizzando una sola ottica, senza nessun primo piano e senza effetti speciali. In fondo non servono grandi mezzi per raccontare belle storie.
Il cinema italiano c’è, esiste e si fa con una buona sceneggiatura e un cast affiatato e brillante. La storia è quella di Valerio, un aspirante attore di ventinove anni che non riesce a sbarcare il lunario e si adatta a fare qualsiasi cosa, suscitando le ire dell'amico d'infanzia Christian, che è un pusher (stra-ironico e super simpatico) che fa affari con la malavita cinese e vuole trascinare l’amico nelle sue losche avventure.
La fidanzata di Valerio, Serena, ha una borsa di studio grazie a un dottorato di ricerca ma ad un certo punto comincia a sentire il richiamo dell'orologio biologico e non manca di farlo presente, scatenando non poche tensioni. C’è poi Giovanna, sorella di Valerio, che fa la fisioterapista e aiuta il fratello, cercando di farlo crescere e incoraggiandolo a prendersi le sue responsabilità. Ognuno giudica l’altro, ma è cieco di fronte alle proprie esigenze e potenzialità. A cambiare le loro vite sarà la giovane prostituta cinese Mei Mei (Deng XueYing), che li metterà inaspettatamente alla prova regalandogli un’altra prospettiva per vedere le cose. Nel panorama della commedia italiana contemporanea, in cui hanno quasi sempre la meglio gli allestimenti para televisivi popolati da giovani goderecci e festaioli, finalmente non ci tocca assistere alla solita vetrina di tatuaggi e depilazioni alla Francesca Arca e al racconto della vita di “figli di papà” che abitano in loft superaccessoriati in centro.
L'esordiente Ciro De Caro racconta il mondo dei giovani in modo assolutamente realistico, e lo fa con assoluta schiettezza rappresentando in maniera lucida l’umiliazione e l’apatia che la precarietà lavorativa provoca nei protagonisti, inducendoli a inibire i propri sogni, nel caso di Valerio, o scatenando il pragmatismo più spietato, nel caso di Christian. Valerio Di Benedetto e Christian Di Sante sono bravi davvero: hanno tempi comici impeccabili, l'uno nelle vesti di primo attore (primadonna), l'altro in quelle di caratterista (non perdetevi le sue perle di saggezza), hanno la giusta dose di umanità e ci hanno regalato non poche risate di qualità. Ma in questa storia il premio va alle protagoniste femminili, capaci di riscattarsi e di reagire in maniera eccelsa alle prove di scarsa virilità di maschi spodestati dal ruolo di capofamiglia: nonne, sorelle, fidanzate - si rimboccano le maniche con una concretezza e una solidarietà che le rende capaci di comprendere anche le situazioni più assurde, garantendo assistenza e protezione. Grazie per questo spaccato di vita, così sensibile e attento ai valori umani e ai rapporti interpersonali, all'unione che fa la forza, e al precariato che ti costringe a essere combattivo. Sempre.

venerdì 25 luglio 2014

12 ANNI SCHIAVO

12 anni schiavo: la statuetta più importante, quella come miglior film, e altri due premi Oscar ‘minori’, alla migliore sceneggiatura non originale di John Ridley (tratta dalle memorie di Solomon Northup) e alla bravissima e giovanissima attrice non protagonista Lupita Nyong’o. Eppure non avevo ancora visto questo film, perché leggendone la trama e conoscendo bene lo stile del regista Steve McQueen (omonimo del famoso attore), temevo l’angoscia e il disagio che avrei provato alla fine della pellicola. E così è stato. Diverso da Shame, ma ugualmente shoccante… Solomon Northup è un musicista nero e un uomo libero nello stato di New York. Ingannato da due impostori, viene drogato e venduto come schiavo a un ricco proprietario del Sud agrario e schiavista. Strappato alla sua vita, alla moglie e ai suoi bambini, Solomon si infila in un incubo lungo dodici anni provando sulla propria pelle la crudeltà degli uomini e la tragedia della sua gente. A colpi di frusta e di padroni vigliaccamente deboli e degenerati, Solomon avanzerà nel cuore della più vergognosa parentesi della storia americana provando a restare vivo e a riprendersi il suo nome. In suo soccorso arriverà Bass (Brad Pitt anche tra i produttori non poteva mancare), abolizionista canadese, che metterà fine al suo incubo. Adattamento del romanzo omonimo e biografico di Solomon Northup, di cui il regista britannico adotta i dodici anni del titolo e affida alle didascalie conclusive la battaglia legale sostenuta e persa dall'autore contro gli uomini che lo hanno rapito e venduto, 12 anni schiavo corrisponde perfettamente l'ossessione di McQueen: lo svilimento progressivo del corpo sottomesso alla violenza del mondo. Da più di un anno il cinema americano prova a fare i conti con la mostruosità della schiavitù, e non pochi registi si sono cimentato con questo tema. McQueen decide per la denuncia attraverso una rappresentazione esplicita, esibita, oscena, a lui tanto cara, che mira evidentemente a risvegliare la coscienza intorpidita dello spettatore e non fa sconti a nessuno. Il male è il male e non ci sono possibilità di comprensione, tantomeno di redenzione. La macchina da presa di McQueen, che indugia sulla pelle lacerata dalle continue frustrate sulla nuda schiena della serva Patsey (una straordinaria Lupita Nyong’o, alla sua prima prova d’attrice) con un estremo susseguirsi di dettagli cruenti, vuole lacerarci l’anima. Eppure si sente che manca qualcosa. E a me questa violenza è apparsa più di una volta gratuita. Un uomo disperato cerca di ritrovare la propria libertà, rassegnandosi giorno dopo giorno alla schiavitù, sopportando torture fisiche e psicologiche sulla carne e nell'anima. Il sovraccarico drammatico, la pesantezza dei corpi martirizzati dalla violenza e dai frequenti colpi di scena, che si appagano soltanto nei piani notturni e nelle stasi irreali della Louisiana, finiscono per essere l'argomento privilegiato della sua requisitoria e per trascurarne la dimensione sostanziale. McQueen liquida la complessità del passato e di un sistema abominevole a favore della sua spettacolarizzazione e dei suoi effetti perversi, tutti incarnati dallo schiavista sadico e compulsivo di Michael Fassbender, attore feticcio e interprete per la terza volta del pensiero ossessivo dell'autore. Probabilmente esistono film che, per coscienza sociale, vanno visti “per non dimenticare”. 12 Anni Schiavo è uno di questi, nulla di più.

martedì 15 luglio 2014

SONG'E NAPULE

Sono assolutamente di parte perché adoro Napoli e l'inconfondibile stile partenopeo, ma ho trovato questo film delizioso e scoppiettante, sarà pure per la presenza del credibilissimo Giampaolo Morelli (per me l’adorato Coliandro), questa volta nei panni di un super cafone dall’improbabile nome d’arte “Lollo Love”.
Per i Manetti Bros, Marco e Antonio, è arrivata finalmente la consacrazione definitiva con questa pellicola così spassosa e divertente, dopo una lunga militanza tra cinema popolare e di genere, serialità, fumetto e musica.
Una Napoli che non tace le sue magagne ma è osservata sotto una luce benevola, e fa da scenario alle imprese di un giovane e timido pianista, Paco, che dopo il diploma al conservatorio è purtroppo ancora disoccupato. La mamma gli trova suo malgrado una raccomandazione per farlo entrare in polizia, ma la sua totale inettitudine lo relega in un deposito giudiziario. Un giorno arriva Cammarota, un mastino dell’anticrimine sulle tracce di un pericoloso killer della camorra, detto O’ Fantasma (perché nessuno conosce il suo vero volto) e infiltra il giovane e inesperto ragazzo in un’operazione rischiosa, con il compito di fare una foto al famigerato criminale di cui nessuno conosce le fattezze. Al commissario serve proprio un poliziotto (e pianista) che dovrà fingersi un musicista del gruppo di Lollo Love, noto cantante neomelodico che canterà al matrimonio di Antonietta Stornaienco, figlia del boss di Somma Vesuviana che sicuramente inviterà O’ Fantasma alla cerimonia. Sarà compito proprio dell’intimorito Paco, in arte Pino Dinamite, abbigliato come un coatto e costretto a suonare quella musica per lui inascoltabile, affrontare con serietà e ardore il compito di arrestare il killer. Lo spunto narrativo dei Manetti Bros prende corpo proprio dall'esperienza dei suoi attori: Alessandro Roja (Paco), Giampaolo Morelli, Paolo Sassanelli, Carlo Buccirosso e Peppe Servillo, incarnano l'essenza della napoletanità e regalano performance memorabili. Ma non si esauriscono nel cast i meriti di Song'e Napule, film che umilia la camorra ed esalta la polizia proprio come in un poliziesco italiano degli anni Settanta: dal commissario dal pugno di ferro, alla rappresentazione cupa degli ambienti criminali, all'esplosione improvvisa di una violenza cieca e sanguinaria, all'aspetto comico grottesco, all'accompagnamento musicale incalzante e per finire all'immancabile inseguimento a bordo di un Alfa Romeo.
A interpretare alla perfezione l'idea del personaggio di Lollo Love è Giampaolo Morelli, anche autore del soggetto, che riabilita i cantanti neomelodici napoletani, smentendo l'idea che dietro a questa 'industria del trash' ci sia la camorra. Lollo, sogna come tutti i cantanti Sanremo e la scena nazionale ma un imprenditore sfaticato, lo costringe dentro i confini della città. Paco, a sua volta, si troverà a riconsiderare il suo rapporto con Napoli complice l’amore segreto per Marianna (la sorella di Lollo), e l'inaspettata amicizia con Lollolove gli daranno il coraggio necessario per affrontare la sua sfida più grande, quella di essere se stesso.
Cuoricini per tutti!!

lunedì 14 luglio 2014

JERSEY BOYS

Sono andata un po’ prevenuta, perché avevo letto critiche abbastanza spietate sulla pellicola, definita come un prodotto minore della filmografia di Clint Eastwood ma volevo verificare di persona e mi fido troppo della sua bravura per lasciar ad altri il compito di recensirlo in malo modo! E infatti a 84 anni suonati è ancora dietro la cinepresa, e l’inimitabile Eastwood ritorna a far parlare di sé e di buona musica soprattutto, forse in un genere un po’ diverso da quello a cui ci ha abituati, ma non per questo di minor impatto. La storia del gruppo dei Four Seasons non è infatti la sua prima pellicola ad inserirsi nel genere del biopic musicale e al tempo in cui decise di riportare sul grande schermo la storia di Frankie Valli, il regista non aveva ancora visto John Lloyd Young, Erich Bergen, e Michael Lomenda calcare le scene di Broadway nel musical omonimo da cui trarrà spunto. Nota la sua passione per la musica, subito rimane colpito, in particolare, dal protagonista, che è simile nelle fattezze fisiche (non avrebbe dovuto superare il metro e sessantacinque) e di origini siciliane proprio come il vero Francesco Stephen Castelluccio, che tra l'altro senza remore ha scelto di co-produrre la sua vita. Ebbene ci vorrà poco per innamorarsi di quell'epoca allo stesso modo dei nostri genitori o dei nostri nonni e per abituarsi al falsetto nasale di Valli, melenso e fastidioso quanto angelico e soave. Dal pop melodico ad un soft rock, dall’unione indissolubile dei componenti alla carriera da solista per Valli, si ripercorrono le quattro stagioni di un gruppo che si ritrovò a scegliere il definitivo nome per la band in un parcheggio, sfruttando l’insegna di un hotel dopo una fallimentare esibizione in un bowling club. Frankie Valli (con la I finale e non con la Y perché così faceva più italiano), Tommy De Vito, Nick Massi e l’ultimo arrivato Bob Gaudio, ci appaiono come vecchi amici di quartiere, che passano dal canto liberatorio giovanile sotto un lampione a vendere milioni di dischi insieme, scampando al triste destino di rimanere impigliati in un circolo malavitoso di quartiere. Il team creativo dietro la macchina da presa è stato guidato dal direttore della fotografia, il candidato all’ Oscar Tom Stern e dallo scenografo James J. Murakami, entrambi già fidati collaboratori di Clint per Changeling. Scenografie e costumi sono perfetti. Un po’ fastidiosa a mio avviso, la trovata di far parlare ogni componente a più riprese nella storia direttamente in camera, e lasciando ad ognuno il compito di raccontare gli snodi più significativi secondo punti di vista diversi: escamotage tecnico più o meno funzionale alla ripresa, ma non apprezzo tutte queste voci fuori campo che parlano con la telecamera, mi pare si perda il filo conduttore. E poi forse anche questo film andrebbe visto in lingua originale, perché il doppiaggio dall’accento italo americano ha sempre quel non so che di artefatto e forzato, che toglie un po’ di intensità all’interpretazione. Ciò nonostante, il piede si muove al ritmo delle loro canzoni e dei loro testi, la recitazione di John Lloyd Young (che interpreta Frankie Valli) è fisicamente splendida con quegli occhi nascosti che riescono però a penetrare nello spettatore, un Christopher Walken perfetto nella parte del boss mafioso ed un Erich Bergen credibile in ogni variazione di costume. Per la prima volta una storia tutta al maschile in cui le figure femminili sono in perenne secondo piano, e la cui assenza è forse giustificata dagli anni in cui si svolge il film, ma che generano una mancanza che si sente. Tolte queste piccole e accettabili pecche, Jersey Boys" non è solo un film sulla musica, ma la storia di una fratellanza che non si può sciogliere: un irrefrenabile tuffo nel passato che si conclude con un raduno finale danzante (forse anche un po’ esagerato e autocompiaciuto) che ci concede gli ultimi primi piani dei quattro protagonisti che intonano dopo tanti anni, i loro successi. Si esce dalla sala canticchiando “Can’t take my eyes off you” e con l’idea di andare a comprare subito la colonna sonora.

martedì 1 luglio 2014

LE WEEK-END

Alcune volte mi sfuggono i meccanismi cinematografici, per cui la maggior parte dei critici valutano con apprezzamento certe pellicole che io trovo di una noia mortale e insalvabili. Basta che il regista sia quello di Notting Hill, che i protagonisti non siano bellocci e giovani ma due insegnanti in pensione, e che i due attori abbiano una provenienza teatrale (senza contare lo sfondo di Parigi poi) che tutti a gridare alla commedia di spessore. Questa commedia ha tutto tranne che dell’aggettivo brillante: è rigida e claustrofobica. Lei è tremenda: eppure dovrebbe ringraziare il cielo per avere un marito in discreta salute che le trova ancora fisicamente attraente e con cui riesce a condividere momenti divertenti, invece è più fredda di un iceberg. I due attori sono senz’altro credibili nel descrivere le nevrosi di una coppia che resiste da trenta anni alle intemperie del tempo, ma non particolarmente simpatici, a tratti odiosi oserei. E dire che non mi sconvolge l’idea di scappare da un ristorante troppo caro senza pagare il conto o voler rivivere un bel momento celebrando i 30 anni di matrimonio, è solo che sono terribilmente patetici nella loro eterna lotta per la conquista della serenità. Una buona terapia di coppia fa miracoli ed è quasi meglio di tanti escamotage messi lì in maniera goffa e improbabile. Una nota di merito a Jeff Glodblum, deliziosamente insopportabile nella parte del rampollo del vecchio maestro che ha avuto successo. Meglio evitare Rue de Rivoli la prossima volta che passate per Parigi, o potreste incontrarlo e vi sentirete dei falliti. Insomma forse sono io ad essere lontana da certi nevrosi, ma non mi ha convinto, soprattutto in seconda serata. Una buona terapia contro l’insonnia.

LA VOCE UMANA

Una leggenda. Due Oscar, un Golden Globe, un Leone d’oro, la Coppa Volpi, una Palma d’oro a Cannes, un BAFTA, sei David di Donatello e due Nastri d’argento. Tanto ha vinto nella sua lunga carriera d’attrice Sophia Loren, tornata in questi giorni sul set, a 79 anni, grazie all’adorato figlio Edoardo Ponti, che l’aveva già diretta nel lontano 2002, nel tutt’altro che esaltante Cuori estranei. Direttamente da Napoli, tra Palazzo Reale, i vicoli del Pallonetto di Santa Lucia, lo storico rione Sanità, il Belvedere Sant’Antonio e Posillipo, Sophia si è prestata alla macchina da presa per un mediometraggio intitolato «Voci umane», volutamente ispirato a quel ‘La Voce Umana‘ dello scrittore francese Jean Cocteau, il cui celebre monologo divenne cinema con l’Amore di Roberto Rossellini, trascinato da una magnifica Anna Magnani. Lo scrittore Erri De Luca si è occupato dello script, per un adattamento volutamente in dialetto napoletano e in grado di stupire, soprattutto nel finale, tanto da portare la città di Napoli nella storia. Al figlio ha regalato un'interpretazione che per lei era una sfida, "è un'attrice istintiva, non prova, qui per sei settimane, come una pièce teatrale, ha preparato la parte. Per lei era veramente un obiettivo", dice Edoardo. Quel monologo della donna abbandonata dall'amante, che spera di riconquistarlo ma poi si dispera quando capisce che è sconfitta, "dall'inizio della carriera era un sogno, l'avevo visto con la Magnani, mi ero detta che un giorno ci sarei riuscita anche io. Un monologo bellissimo, una meta per tante attrici, certo la Magnani era la Magnani, un'attrice straordinaria, di temperamento, sensibilità e coraggio fuori dal comune. Ora ce l'ho fatta anche io".

giovedì 19 giugno 2014

MALEFICENT

Sarà la presenza ancora viva del nostro spirito fanciullesco, ma io mi sono goduta lo spettacolo e ho trattenuto il respiro sino alla fine della proiezione, dunque non aspettatevi una recensione ‘tecnica’, si tratta pur sempre di una fiaba e di un film Fantasy. Innanzitutto non è la storia della Bella Addormentata bensì quella di Malefica, la storia di una vittima che, da grande, troverà il modo di superare il male che le è stato inflitto da chi amava e lo farà in una maniera che non ci aspetteremo, rinunciando alla sua vendetta. L’esordio alla regia è di Robert Stromberg, production designer premio Oscar, scenografo di “Alice in Wonderland” e de “Il grande e potente Oz”, che della fedeltà all'immagine originale fa un punto di forza della sua opera, oltre che da una preziosa estetica fantasy, che dona al film una personalità fiabesca e una cornice medievale. Ma la vera magia, la detiene interamente una titanica Angelina Jolie, incarnazione a dir poco perfetta della cattiva disneyana, anche e soprattutto nelle sfumature. La Disney torna a cimentarsi con una fiaba tradizionale, questa volta con un budget mai visto fino ad ora per un film animato. Ciò che può invece lasciare perplessi, è la trasformazione di una figura nata per incutere il terrore (perpetrata per giunta sulla pelle di un’innocente neonata), in una fata madrina dai tratti elegantemente dark, prudente e affezionata, a tratti sexy ed anche spiritosa. Ma la variazione ci piace e ci convince. Nella volontà della casa di produzione c’era sicuramente l’intento di non spaventare troppo un pubblico di minori sempre meno abituati a fare i conti con le brutture del mondo, ma insistere invece proprio nella dualità che il personaggio originale portava con sé: terrificante eppure così affascinante. La fantasia tipica delle fiabe della matrigna (o fata) cattiva, che serve a preservare intatta l'immagine positiva della madre, qui viene riunita in un'unica figura, ed è proprio riconoscendo questa compresenza che Aurora lascia l'infanzia per scegliere consapevolmente il proprio destino. Anche le fiabe si evolvono. Film Per tutti.

venerdì 6 giugno 2014

GRACE DI MONACO

Presentato in anteprima alla 67esima edizione del Festival del Cinema di Cannes come film d’apertura, Grace di Monaco, è stato accompagnato da numerose polemiche, sia dal punto di vista produttivo che dalla famiglia Grimaldi. Il produttore cinematografico ha definito la pellicola come “terribile”, ordinando un secondo montaggio e minacciando di non far uscire il film in America, mentre i figli di Grace Kelly, l'hanno giudicata un ritratto approssimativo e poco veritiero. Nonostante questo, a 32 anni dalla sua tragica scomparsa, il francese Olivier Dahan ha portato sullo schermo la storia di una delle più grandi icone dell’era moderna, scegliendo un anno particolare nella vita di Grace Kelly, il 1964, anno in cui la Principessa si trovò a un bivio cruciale: da un lato il suo mentore Alfred Hitchcock le offriva il ruolo della vita (ovvero la ladra bugiarda e frigida di Marnie), e dall’altro la sua famiglia e il principato di Monaco rischiavano di perdere tutto a causa di difficoltà diplomatiche con la Francia. Diva dall’elegante bellezza, musa e icona del maestro del cinema Alfred Hitchcock (che la definì “ghiaccio bollente”); premio Oscar a soli 26 anni, partner sullo schermo e nella vita di attori come Cary Grant e Clark Gable; icona di stile (tanto da meritarsi una borsa che porta il suo nome dalla casa francese Hermès - beata lei!) e infine sposa del principe Ranieri di Monaco: la vita di Grace Kelly è realtà che supera la finzione e non può non far gola a chi ama i racconti biografici. A interpretare Grace è Nicole Kidman, che per il ruolo si è immersa nella vita della principessa per ben cinque mesi studiandone ogni dettaglio (dalla postura al modo di parlare e camminare) e leggermente sgonfia del botulino a cui ci aveva abituato, è riuscita a portare con maestria ed eleganza gli sfavillanti abiti di Grace, perfetti e impeccabili così come la ricostruzione degli oggetti di scena e le splendide location, tra cui il Palazzo Reale di Genova. Ad affiancare la Kidman ci sono un apprezzabile Tim Roth, nel ruolo di Ranieri, un’affascinante Paz Vega, che interpreta una moderna Maria Callas, e Frank Langella, chiamato a raffigurare Padre Tucker, prete americano confidente della principessa. Di solito amo i film ispirati alle biografie, alle belle storie di vita ma nel film di Dahan ci troviamo di fronte ad un film di finzione e non un biopic (dalla contrazione di biographic picture, appunto film biografico) e la vita già da romanzo di Grace Kelly viene trasformata in un thriller di spionaggio, in un film su colpi di stato e in un dramma domestico. Eppure c’era così tanto da raccontare su di lei, mi chiedo perché ingarbugliare la storia a suon di politica e drammi famigliari irrisolti. La principessa sembra una figura a metà tra la Signora in giallo e una miss di un concorso di bellezza che grazie ai suoi discorsi sulla pace e sull’amore salva intere nazioni. La regia che indugia con insistenza sul volto della Kidman (non so a che scopo), la fotografia da fiction televisiva e la riduzione a semplici macchiette di figure storiche di spicco come Maria Callas, Alfred Hitchcock e Charles De Gaulle non aiutano la causa e rendono il tutto un po’ uno spaccato di un giornaletto di gossip dal parrucchiere. Che peccato!

mercoledì 28 maggio 2014

LE MERAVIGLIE

Ho dovuto metabolizzare la visione di questo film prima di scriverne la recensione, perché è un genere difficilmente collocabile: sembra un’antica favola pastorale di ispirazione neorealista e nello stesso tempo un film moderno, con un delicato ritratto sull’adolescenza. Sono in ogni caso fiera che questa pellicola abbia ricevuto dei riconoscimenti: “Le Meraviglie”, di Alice Rohrwacher (sorella di Alba, che ritroviamo nel film) ha vinto il prestigioso “Gran Prix” (il secondo premio, dopo la Palma d'oro) alla 67esima edizione del Festival del Cinema di Cannes ed è stato l’unico film italiano in concorso. Probabilmente ad aver conquistato la giuria è stata l’attenzione per la natura, per la vita rurale e i suoi valori, che la regista ha saputo raccontare con estrema raffinatezza e sensibilità, nonostante i suoi giovanissimi 33 anni.
Siamo presumibilmente nella campagna della Tuscia degli anni '90, a casa di una coppia di apicoltori con quattro figlie femmine. La maggiore, ha il nome di un fiore, Gelsomina, ed è amica delle api mellifere che tratta come piccoli animaletti domestici. Durante un'estate di duro lavoro, appare una fata dalle lunghe trecce biondo platino, Milly Catena (una conturbante Monica Bellucci relegata in una parte minore), conduttrice di uno show televisivo che invita la gente del posto ad un concorso che premierà la migliore azienda di prodotti locali. Gelsomina sarà molto colpita e affascinata da questa donna e attraverso i suoi occhi vivremo la diversità di una comunità 'dissidente' che si è ritirata in una dimensione bucolica e produce miele e salse di pomodoro, nella speranza di resistere al mondo “fuori”. Un mondo che prende la parola e il microfono per mezzo della televisione regionale, che promette di fare ‘meraviglie’ per i residenti. Wolfgang, restio a qualsiasi forma di socialità e apertura al mondo esterno, è un personaggio determinante, un padre perennemente arrabbiato: la sua presenza severa e cruda è a tratti angosciante. Eppure è un padre che ama le sue figlie e soprattutto Gelsomina, la primogenita, che per certi versi è il capo-famiglia. A lei trasmette i segreti dell'apicultura, da lei si fa togliere i pungiglioni dalla schiena, ma quando arriva Martin, un ragazzino protagonista di un programma di rieducazione che entra di prepotenza nella loro vita, l'equilibrio sembra rompersi. Delicato e sensibile, lo sguardo di Alice Rohrwacher si infila nella relazione padre-figlia, realizzando una nuova cronaca dell'adolescenza. Il talento dell'autrice, rivelato nel suo primo lungometraggio, si riconferma dentro un paesaggio rurale che esalta la sua vocazione documentaristica.
Le Meraviglie è un film dai forti connotati autobiografici: nata da madre italiana e da padre tedesco, la Rohrwacher è cresciuta a Castel Giorgio, in provincia di Terni, terra di origine della madre e luogo di lavoro del padre Reinhard, apicoltore transumante e conduttore di un agriturismo. E’ quindi un film lontano da logiche commerciali, visionario ed enigmatico, una storia di formazione ermetica, ma con il sottofondo delle note di T’appartengo di Ambra, forse l’unico appeal di natura ‘commerciale’, in cui le bambine-attrici (meravigliosamente brave) ci regalano prova di grande intensità e capacità attoriali. La Rohrwacher ha comunque fatto una scelta audace, raccontando del rapporto sempre difficile fra un padre e una figlia quasi adolescente, fra il conservatorismo rabbioso di Wolfgang e la spinta gioiosa a vivere il futuro di Gelsomina, ma anche di un Italia che non c’è più, un piccolo mondo antico fatto dal sudore dei campi e dal contatto diretto con la natura. La mancanza di un vero e proprio filo conduttore logico, con sequenze conclusive un po’ incompiute, penalizza una pellicola già di per sé molto rischiosa, dove spesso il ritmo si affievolisce dinanzi alla routine contadina di un casale, in una dimensione grigia senza tempo.
Vorrei regalarvi un affresco maggiormente “denso” di questo film, ma la nostalgia verso l’adolescenza è una dimensione che sembra lontanissima e ingabbiata in un contesto monocolore. Così realistico e spoglio di sovrastrutture da apparire, con estremo dispiacere, poco empatico e vibrante, nonostante il richiamo ai tormentati anni della gioventù, che sono soliti regalare qualche emozione in più. Comunque un esperimento coraggioso.

mercoledì 14 maggio 2014

ALABAMA MONROE - UNA STORIA D'AMORE

Alabama Monroe, titolo originale The Broken Circle Breakdown - I guasti del cerchio spezzato (e questa volta la traduzione “ispirata” ci sta benissimo), sconfitto alla corsa per l’Oscar come miglior film straniero da La Grande Bellezza ma vincitore del premio Cesar in Francia e di due premi al Tribeca Film Festival di New York, è un’opera di dirompente drammaticità, che ti spacca il cuore. Un film diviso tra due mondi: la campagna belga, che però sembra quella del Texas o del Kansas e un'America che s’insinua fin troppo nella vita di Didier ed Elise. Se i protagonisti non avessero nomi francofoni e ogni tanto non si vedesse qualche targa europea, si potrebbe pensare che sia un film americano. Intenso, poetico e mai stucchevole, "Alabama Monroe" poggia su un insolito ma ben riuscito connubio tra cultura europea e folk americano ed è tratto dall'omonima pièce teatrale, d'ispirazione autobiografica, di Johan Heldenbergh, il protagonista maschile della pellicola.
La storia si svolge all’inizio degli anni 2000. Didier è un cantante di bluegrass (una variante old style del country), un omone con la barba che suona il banjo e vive in una roulotte mentre aspetta di ristrutturare casa. Elise è una tatuatrice professionista, una ragazza spirituale e sorridente, che ha inciso sul corpo la propria storia, cancellando via via i nomi degli uomini che ha amato per coprirli con nuovi tatuaggi. Quando si incontrano, è amore a prima vista: si amano totalmente, si perdono e si ritrovano ma si rispettano sempre. Lui la coinvolge nella sua musica, nell’amore per l’America e alla fine si esibiranno insieme dividendo palco e vita privata. Hanno una bambina bellissima, Maybelle, che purtroppo si ammala di cancro e muore molto piccola. Questo scatenerà una serie di eventi drammatici e di reazioni profondamente diverse che mineranno gravemente la loro bella storia d’amore.
Felix Van Groeningen, il regista fiammingo, sceglie inequivocabilmente la strada del melodramma e adotta uno stile di narrazione molto forte, sia nel raccontare la storia d'amore totalizzante fra i due protagonisti, sia nell'addentrarsi coraggiosamente nell'evoluzione tragica degli eventi in maniera lucida e fin troppo realistica. Lo storytelling è scomposto attraverso un susseguirsi di flashback: una frammentazione intelligente che permette di alternare la tenerezza dei momenti passati alla dolorosità di quelli presenti. A fare da filo conduttore sono alcune scene in cui i protagonisti suonano e cantano canzoni bluegrass (tutte tra l'altro interpretate dal vivo direttamente da loro: lui è un musicista, lei viene dal musical), che regalano sollievo momentaneo di fronte una sofferenza messa a nudo così bene che ti costringe spesso al fazzoletto. Strepitose le performance di questi due attori che non si risparmiano mai e regalano credibilità e potenza emotiva ad un film che ha il merito di non incorrere mai nel pathos o nel pietismo. I due protagonisti hanno una chimica rara e diventano Elise e Didier con un livello di identificazione che raramente si vede nel cinema. Non si tratta di un mero escamotage finalizzato a catturare l’emotività dello spettatore, ma piuttosto l’esigenza di raccontare in maniera coerente l’autenticità della vita comprese le dure prove a cui ci sottopone. Johan Heldenbergh, interpreta Didier come una creatura primordiale con un'inesauribile energia vitale e una dirompente carica rabbiosa quando la vita gli riserva il dolore più grande e le politiche degli uomini non lo aiutano. Veerle Baetens, vincitrice dell'European film award per il ruolo di Elise, ha una recitazione epidermica perfettamente consona ad una donna che usa la propria pelle per esprimere ogni sentimento. La sua Elise è una donna dalle emozioni forti ed è estenuante osservarla tentare di sopravvivere ai propri abissi di tristezza e cercare di “ripartorirsi” con un nuovo nome e una nuova storia.
Ho amato tantissimo una delle scene finali in cui lei decide di farsi chiamare Alabama e lui le chiede “ma se tu sei Alabama io chi sono?” “Tu sei Monroe” ossia il padre della musica che pervade l’intera colonna sonora, ovvero Bill Monroe.
C’è tanto in questo film da cui farsi avvolgere e stravolgere: dall’amore nella sua forma più pura e selvaggia, al tema etico e religioso, al modo di affrontare un lutto, al tentativo (vano) di ricomporre un cerchio spezzato. Anche i senza-cuore avranno un sussulto.

mercoledì 30 aprile 2014

HER (LEI)

Non si può dire che non sia un film ben fatto e che non abbia raccolto consensi un po’ da tutto il mondo: però mi aspettavo qualcosa di più da una pellicola fresca di Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Non che non lo sia (originale intendo) ma Her (Lei), di Spike Jonze non mi ha convinto. Lui sarà pure un geniale direttore di videoclip, ma dopo essere passato al cinema con Essere John Malkovich, è diventato il re del cinema per gli hipster, quei fighettini non ben identificati che applaudono una fetta di cinematografia nebulosa per gli alternativi “di classe”: l’esteriorità, la forma a dispetto della riflessione critica e il culto dell’estetica vintage (vi rifarete gli occhi con una fanatica fotografia dai colori pastello che invade la quotidianità, con look e arredamenti anni 70 strabilianti).
Boh. Non lo so nemmeno io cosa ho scritto, d’altro canto non so cosa ho visto.
Certo la storia non è così assurda se si pensa all’uso improprio e maniacale che facciamo della tecnologia, ma lo diventa quando i due innamorati (un essere umano e un pc tanto per chiarire le posizioni) si mettono a fare i gelosoni. Il quadro è presto dipinto: in un futuro non molto lontano, dove la tecnologia ha invaso il privato Theodore è un uomo solo, con alle spalle un matrimonio fallito e non riesce più a provare emozioni e stimoli vitali. Incuriosito da una pubblicità, decide di comprare un sistema operativo parlante, progettato per interagire con gli umani nelle attività giornaliere. Lo imposta con la personalità femminile e, ovviamente, se ne innamora. La particolarità di questo nuovo software, però, è quella di essere un’intelligenza artificiale in grado di evolversi e di godere di una sorta di libero arbitrio, rivelando non poche sorprese al nostro triste amante solitario che finirà per capire di non aver fatto un bell’affare. Non si può non riconoscere a Jonze la volontà di affrontare in modo coraggioso un tema complesso come la trasformazione tecnologia (e di conseguenza sociale) che affligge l’uomo contemporaneo, sempre più schiavo e eternamente connesso con software, palmari, smartphone che ne condizionano gli stati d’animo. A questo impianto di partenza, che sembrerebbe più o meno realistico, si aggiunge inoltre l’innegabile bellezza ed eleganza della scenografia, che costruisce un futuro dove geometria e ordine hanno preso il controllo della società (Shangai e Los Angeles sullo sfondo sono tra le poche scelte azzeccatissime). Jonze forse valeva portare al cinema il complesso rapporto tra umano e macchina: ma il suo film, man mano che va avanti, non ne parla affatto. La storia d’amore tra Theodore (un Phoenix bellissimo e convincente) che ad un certo punto vorresti inevitabilmente prendere a ceffoni e il computer con la voce di Scarlett Johansson (a noi ci è toccata purtroppo Micaela Ramazzotti che ha rovinato non poco la resa dialettica) è una normalissima storia d’amore tra due esseri umani, con bisticci, slanci d’affetto e incomprensioni.
Un po’ Sandra e Raimondo del web che litigano del quotidiano. Speri che ad un certo punto LUI rinsavisca, perché è veramente tutto troppo (inverosimile). Invece no. E' più facile rifugiarsi in un facile sentimentalismo, a tratti toccante e coinvolgente certo, ma assolutamente slegato dal contesto e soprattutto pesante da sopportare. Questo, vanifica in partenza, la possibilità di entrare in empatia con l’idea di nutrire dei sentimenti verso un computer. Insomma, Her risulta essere, a mio avviso irrisolto e poco credibile, come il vano e improbabile tentativo di consegnare le proprie emozioni a una macchina.
Se proprio dovete vederlo… almeno in lingua originale.

mercoledì 23 aprile 2014

THE GRAND BUDAPEST HOTEL

Dire che Monsieur Gustave è un concierge sarebbe alquanto riduttivo: lui è l’anima del Grand Budapest Hotel, collocato nell'immaginaria Zubrowka. Wes Anderson riesce così bene a ricreare un ambiente talmente visionario e surreale, che subito ti fa immergere nell’atmosfera vintage di quel periodo, in luoghi di cui non saprai mai provare la reale esistenza. Il Corriere della Sera lo ha definito “la casa di pan pepato della fiaba di Hansel e Gretel”, perché vorresti quasi mangiarlo (non a caso tra i personaggi c’è anche una pasticcera, con una inspiegabile voglia a forma di Messico sulla guancia destra) e io non posso che accogliere questa immagine colorata e fiabesca che caratterizza tutta la pellicola. La storia è più rosa che noir, anche se la trama ruota attorno all’omicidio di una vecchia e ricchissima signora che da in eredità al bel concierge un famosissimo quadro dal valore inestimabile. Il protagonista, Gustave, situato in un magnifico non-luogo raggiungibile da una teleferica (sulla quale vorresti salire subito), nel bel mezzo dell’Europa Centrale e in un’epoca sospesa tra le Guerre Mondiali, sarà arrestato e il suo nuovo “LobbyBoy" (e poi amico) Zero, ci racconterà questa fantastica storia. Ralph Fiennes nei panni di Gustave non può che essere perfetto, impeccabile e raffinatissimo. Il film è dedicato a Stefan Zweig, scrittore austriaco tra i più noti tra gli anni Venti e Trenta: è alle sue opere che il regista ha dichiarato di ispirarsi per questo ennesimo viaggio in un mondo tanto immaginario, qma anche ancorato alla realtà. In questa occasione ai quasi immancabili Bill Murray ed Owen Wilson, si aggiungono Murray Abraham e il mio amatissimo Adrien Brody passando per l'esordiente Tony Revolori (Zero) che, non solo affianca il maniera eccelsa il protagonista (bellissima la imprevedibile storia d’amicizia tra lui e Gustave), ma finirà con il rappresentare l'immigrato costantemente nel mirino di tutti i razzismi grazie anche al suo volto che è un mix di etnie diverse. Questa prospettiva esalta ancora di più la riflessione su quelle frontiere che troppo a lungo in Europa hanno costituito punti di non ritorno per migliaia di persone arrestate e fatte sparire. Le stanze del Grand Budapest Hotel sono innumerevoli quanto i personaggi abitati dalla fantasia di Anderson che non sbaglia mai un'inquadratura: paesaggi da cartolina, dialoghi assurdi ma carichi di ironia, improbabili inseguimenti mozzafiato, dosi massicce di pasticceria pura a tratti interrotta da qualche intervento splatter che non ti aspetti, fanno di Gran Budapest Hotel un film da gustare con e in tutti i sensi.

TI SPOSO MA NON TROPPO

Il teatro al cinema. Non lo so. Forse è troppo-troppo carico di recitazione sopra le righe e di situazioni viste e riviste.
La voce fuori campo del protagonista che commenta le scene, le musiche da spot, il panino con la mortadella, la paziente che si innamora del finto analista, il balletto finale. Basta, mi fermo qui.
Questa commedia, troppo romantica anche per me, gioca sul proliferare incessante degli equivoci e fin qua nulla di nuovo: è la trasposizione cinematografica della pièce omonima scritta da Gabriele Pignotta, che è anche regista e interprete del film, nei panni di Luca. Allora se una commedia ha avuto tanto successo in teatro, perché portarla al cinema mi chiedo io? La storia è garbata e godibile per carità: gli intrecci si sviluppano in modo agile, c’è buon ritmo comico (con i tempi di entrata e uscita in scena tanto cari al teatro), tanta leggerezza, qualche gag riuscita ma insomma alla fine è sempre un po’ pochino considerando anche la presenza di qualche bravo attore a disposizione (ad es. Paola Tiziana Cruciani e Paolo Triestino nei panni 'limitati' dei genitori di Carlotta). Se il matrimonio è la tomba dell’amore, forse il cinema è la tomba del teatro: meglio non rischiare la prossima volta.

venerdì 28 marzo 2014

LA MOSSA DEL PINGUINO

Non è un film su uno sport che non conoscete bene, non lasciatevi fuorviare. E’ un film che parla di agonismo, di sfide, di riscatto, di amicizia e di una mossa in particolare, che acquisterà significato solo alla fine della pellicola. E’ la storia di un sogno, quel sogno che ognuno di noi tiene chiuso in un cassetto, per paura che prenda corpo e voce e ci faccia buttare tutto all’aria.
Il protagonista è Bruno, marito e padre affettuoso ma totalmente inaffidabile e un po’ sconclusionato. Passa le notti a pulire i pavimenti di un museo romano con lo scopettone, insieme all'amico di sempre Salvatore (Ricky Memphis), sognando un futuro diverso da quello che per lui “è già deciso”.
Un servizio televisivo sul curling, disciplina sportiva forse non troppo lontana da quel lavoro notturno e non molto nota al grande pubblico, scatena l'immaginazione dei due amici, che decidono di candidarsi addirittura alle olimpiadi. E poiché la squadra di curling deve essere formata da quattro atleti, ecco qui che vengono reclutati altri due improbabili candidati: l'ex vigile Ottavio, abilissimo e diffidente giocatore di bocce, e il simpatico mago del biliardo Neno. Inutile dire che Eva, la moglie di Bruno, non sarà affatto d'accordo sul progetto e il ‘nostro eroe' rischierà di perdere molto. La mossa del pinguino, film scritto da Claudio Amendola ed Edoardo Leo (che interpreta il ruolo di Bruno) e diretta dallo stesso Amendola, fa leva proprio sui punti di forza di una certa romanità pulita e corale che ci piace tanto: un cast affiatato, su cui troneggiano Ennio Fantastichini e Antonello Fassari, ma anche il piccolo Damiano De Laurentiis nei panni di Yuri, il figlio di Bruno. Un occhio sempre attento alla realtà, evidente anche nei dettagli di scenografia e costumi. Per certi versi, anche un film di genere, che strizza l’occhio alle "imprese sportive improbabili", ma ricorda anche i disoccupati spogliarellisti di Full Monty. La formula è limpida e modesta, ma fatti di dialoghi ispirati e profondi, come quello sulla "biglia che va tenuta come un passerotto", e alcuni particolari della regia, come i primi piani dell'uovo al tegamino, manifestano grande attenzione per le cose semplici della vita. Senza grandi pretese, questi quattro personaggi non ancora rassegnati al fallimento e alla solitudine, si fanno volere bene e strappano più di qualche sorriso. L’armata Brancaleone dei ghiacci ci prende il cuore e ci restituisce tanto: d’altro canto “non si può passare la vita a sbocciare, qualche volta bisogna accostare”.

venerdì 14 marzo 2014

ALLACCIATE LE CINTURE

Tredici anni di vita sono tanti per qualsiasi coppia: può succedere di tutto, anche se ci si è amati tanto. Ripercorriamo a partire dai duemila, in una Lecce sempre molto charmante, la storia di due giovani bellissimi e pieni di passione ma diversi per estrazione sociale e carattere, due giovani che si odiano, si amano, si tradiscono, soffrono e saranno messi a dura prova dalla malattia e dell'ombra della morte. Lei Elena, di buona famiglia, fa la cameriera e il suo sogno è mettere su un locale tutto suo, spalleggiata dall'amico gay Fabio. Lui, Antonio, fa il meccanico, è senza ombra di dubbio razzista e pieno di tatuaggi. I due, si incontrano in una giornata piovosa e litigano brutalmente. Ci piacciono da subito, perché amiamo le storie impossibili e legate da chissà quale filo conduttore. Il loro innamorarsi è il momento migliore del film, secondo me. C’è l’attesa, il rincorrersi, il fascino del proibito. Non si capisce se ce la faranno..e invece poi li ritrovi "formato-Famiglia". Fino a quasi metà del film Ozpetek mi ha pure ingannato: ho pensato che si tornasse a parlare d’amore, di sentimenti, di affetti reali che oltrepassano le dinamiche di genere, e superano il tempo. Ho pensato: finalmente una bella storia d'amore di quelle che ti fanno sognare. Poi ad un certo punto il dramma, la malattia. Quella al cospetto della quale non puoi che aspettarti il momento della riflessione e del ritorno in sé, perché fino a quel giorno forse ti eri solo lasciato vivere. Quella che al cinema non vorresti mai vedere, non perché non esista, ma perché ci vuole anche un po’ di pudore nel raccontare il dolore e perché sembra sempre che non si ricorre a qualche triste escamotage, la vita affettiva non abbia il valore che merita. Insomma lo stratagemma retorico e melò lo vedo sempre, quello per catturare l’attenzione dello spettatore per intenderci e farlo un po’ intenerire (che poi nemmeno tanto). Che non vuol dire che il regista non abbia provato a raccontare il dramma personale in maniera delicata (e a tratti scherzosa), ma non ne ho colto appieno il significato. Quello di riscattarsi da una conflittuale e stanca vita matrimoniale a causa di un avvenimento doloroso? Il risultato è una comicità che andrebbe bene in “Mine vaganti” ma che non riesce a legare con una drammaticità a tratti superiore a quella de “La finestra di fronte”. La storia c'è (c’era almeno), amore ed amicizia si intrecciano tra gesti controllati e istinti passionali, ma la sensazione del vuoto d'aria si è persa strada facendo. Anche la malattia di Elena, che pure capovolge i ruoli e riequilibra i sentimenti, passa forse troppo velocemente. Insomma avremmo preferito mantenere la sensazione delle farfalle allo stomaco che ci ha accompagnato all’inizio, invece che uscire con il magone. Salvo Elena Sofia Ricci e le sue fantastiche battute. Kasia Smutniak per me è bellissima e può uscire di casa così com'è, anche la mattina appena sveglia. Francesco Arca è meno peggio di quello che pensavo...(no dico ve lo ricordate Raoul Bova agli inizi??). In ogni caso la parte del tenebroso tatuato è la sua ed ha un bel sedere. Nulla di più. Se volete rifarvi gli occhi ok ma vivamente sconsigliato a chi è un po' angosciato di suo.


SNOWPIERCER

Tratto dal fumetto francese Le Transperceneige e girato con un cast internazionale (John Hurt, Chris Evans, Jamie Bell), Snowpiercer è stato definito la miglior sci-fi (science fiction) dai tempi di Matrix, anche se a mio avviso si colloca meglio come ibrido, a metà strada tra un action movie e un genere pulp: è qualcosa di nuovo, di diverso, che non ti aspetti. Forse perché è coreano. Siamo di fronte all’ennesima era Glaciale sulla Terra e fin qui nulla di nuovo. Gli ultimi sopravvissuti del genere umano, questa volta però, vivono confinati in un treno rompighiaccio in grado di percorrere senza interruzione il globo terrestre. L'inventore di questa macchina perfetta, tale Wilford (Ed Harris) ha anche determinato un sistema sociale su cui si regge l'equilibrio della comunità che abita i vagoni del treno: in coda stanno i miserabili sfruttati, e in testa vivono invece passeggeri di prima classe, i privilegiati; ma la rivolta degli oppressi dalla coda del treno si farà sempre più forte e il loro leader, Curtis, tenterà di prendere in mano la situazione, arrivando della testa del convoglio. Questa pellicola, una delle più attese degli ultimi anni dagli amanti del cinema di genere, è il più costoso film mai prodotto in Corea, e il caso raro di un'opera d'autore di un regista di grande talento Bong Joon-ho, che è stato capace di tenersi in equilibrio tra cinema popolare e rilettura critica. Quali che siano gli esiti del botteghino, Bong ha portato sullo schermo il "suo" classico di fantascienza, che non è solo un'efficace opera di intrattenimento ma anche una profonda riflessione filosofica sulla natura dell'uomo e le sorti dell'umanità: cupa e inquietante a tratti, disperata e combattente in altri, ma anche aperta, nel finale, ad un insospettabile raggio di speranza. È una proiezione plausibile del nostro futuro: racconta, estremizzandole, le conseguenze del degrado ambientale e climatico. Nel treno-mondo di Bong, costruito tra scenografie geniali e intriso di oscurità e luci cangianti (magistrale la fotografia), si riflette inevitabilmente la prospettiva non-occidentale dell'autore e un cast più che all’altezza della situazione. E quindi, a fianco di un intenso e tenebroso Chris Evans (praticamente irriconoscibile, avete presente il bel captain America?), Jamie Bell e John Hurt e un'inespugnabile Tilda Swinton, che troneggia su tutti, crudele e bruttissima. Non è facile descrivere Snowpiercer, perché la sua natura di pellicola orientale viene fuori con una tale frequenza da renderlo totalmente anti-hollywoodiano: a tratti è grottesco, poi diventa super violento, poi di nuovo grottesco. Ti aspetti un certo sviluppo, e invece ne arriva un altro, imprevedibile: viaggia, letteralmente, su un paio di binari, ma non sai fino alla fine che direzione vuole prendere, e questo mantiene viva l'attenzione e ti incolla allo schermo, con un senso di angoscia e di terrore che non ti abbandonano mai. Di dormire non se ne parla proprio, ne durante il film né tantomeno dopo. Il film di Bong Joon-ho è proprio come il convoglio di cui parla: fatto di vagoni diversi e tenuti insieme non si sa bene come e per andare dove, e sempre a un passo dalla catastrofe. Eppure va avanti. Un po’ come fa l’umanità ogni giorno.

lunedì 3 marzo 2014

SORRENTINO: L'OSCAR "SALVA ROMA"

Dopo 15 anni dal trionfo di Benigni alla notte degli Oscar finalmente la sospirata statuetta torna nelle nostre mani, con la vittoria de “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino, premiato come miglior film straniero. Non si può che essere felici di questo riconoscimento, a prescindere dalle critiche più o meno feroci (tra l’altro espresse principalmente in patria e non all’estero) e a discapito di tutti i detrattori che ritenevano questa pellicola non meritevole di tanto successo (vorrei sapere chi ci avrebbero mandato al posto di Sorrentino??!) Il cinema italiano torna ad incantare e sedurre Hollywood, riecheggiando i fasti de La Dolce Vita, ma regalandoci un’immagine più moderna e sofferta di una Roma cialtrona e scanzonata, fatta di personaggi bizzarri e alla ricerca di una vera identità. Non possiamo che essere felici di tornare alla ribalta con una tradizione cinematografica che da sempre ci appartiene e con il talento dei nostri giovani registi, che sanno regalarci prove di grande maturità artistica. Saranno queste le ragioni che presumibilmente hanno indotto Mediaset a trasmettere "La Grande Bellezza", martedì 4 marzo su canale 5. Questa programmazione scontenta non solo gli esercenti cinema, che lamentano il rischio di penalizzare le sale (dove il film è tuttora in proiezione) ma crea tensione anche con la rivale di sempre Sky Cinema, che ha mandato in onda la diretta della notte degli Oscar. Vogliamo sperare che alla base di tale decisione, non ci sia solo una spregiudicata strategia di marketing (Mediaset possiede la casa produttrice Medusa che ha prodotto il film) o la storica rivalità con il gruppo di Murdoch, ma il sano desiderio di mettere a disposizione di tutti la visione di “una Grande Bellezza”. Mai come questa volta però è stato piacevole fare nottata non solo per la premiazione italiana, che ci ha regalato la soddisfazione di un riconoscimento atteso da tempo, ma anche per assistere al trionfo degli altri film in gara, che meritano davvero tutti di essere nominati. Il miglior film, come da pronostico, è stato “12 anni schiavo” (che si è aggiudicato anche la statuetta per la miglior sceneggiatura non originale e per la migliore attrice non protagonista, la giovane Lupita Nyong’o). Un'altra bella prova del regista Steve McQueen e soprattutto la prima volta che il premio viene assegnato a un regista nero, sembra scontato precisarlo eppure non è così. Sarà contento Brad Pitt, che come produttore, finalmente si guadagnata la statuetta. A dominare la serata è stato però (con grande sorpresa a mio avviso) “Gravity”, vincitore di ben sette Oscar (tra premi tecnici, colonna sonora e regia di Alfonso Cuaron). A mani vuote, anche questa volta, il ‘povero’ Leonardo Di Caprio che ha dovuto cedere il passo allo strepitoso Matthew McConaughey di “Dallas Buyers Club”: film applauditissimo che ha visto premiare anche Jared Leto come migliore attore non protagonista. Il Premio come migliore attrice se lo è aggiudicato la sempre perfetta e incantevole Cate Blanchett nel film di Woody Allen Blue Jasmine (il film non è niente di che ma lei sublime ed eterea come sempre non sbaglia un colpo), mentre il premio per la migliore sceneggiatura è andato a “Her” di Spike Jonze (che devo assolutamente vedere, nelle sale il 13 marzo). Escono a mani vuote invece, inspiegabilmente, 'American Hustle', che aveva ben dieci candidature (sono offesa per il mio amato e panciuto Christian Bale) e 'The Wolf of Wall Street' di Martin Scorsese, che ne aveva cinque (sarà la maledizione del bel Di Caprio?). Non sono mancati momenti da ricordare e siparietti di ogni genere: a parte l’inglese strampalato di Paolo Sorrentino, e le sue bizzarre fonti d’ispirazione (vada per Scorsese e Fellini ma che c’entra Maradona?), il momento più alto della serata è stato la foto selfie scattata da Bradley Cooper su idea della presentatrice, che in pochi minuti è diventato il tweet più celebre della storia; per non parlare di Brad Pitt che distribuisce piattini di carta per mangiare la pizza e ne addenta un trancio come un camionista sulla Salerno-reggio Calabria (speriamo ne dia un po’ anche ad Angelina Jolie, che è apparsa come al solito tutta pelle e ossa ). Vizi e virtù di una Hollywood festaiola, quasi a voler emulare la più celebre e movimentata movida capitolina.

mercoledì 26 febbraio 2014

MONUMENTS MEN - WHAT ELSE?

Una bella squadra quella capitanata (e diretta) da George Clooney che ripercorre una storia realmente accaduta: quella di un gruppo di storici che si lanciano nell’impresa di salvare delle opere d’arte dalla furia devastatrice di un Hitler ormai vicino alla resa. Siamo ormai sul finire della guerra e mentre le forze alleate sferrano il loro attacco alla Germania, lo storico dell'arte Frank Stokes ottiene l'autorizzazione da Roosevelt per mettere insieme un gruppo di esperti che ha il compito di recuperare tutto ciò che Hitler ha trafugato in previsione della costruzione dell’imponente Museo del Fuhrer. In caso di sconfitta del Reich, infatti l'ordine è di distruggere tutto. Si viene così a creare una compagnia formata da due storici e un esperto d'arte, un architetto, uno scultore, un mercante, un pilota britannico e un soldato ebreo tedesco (per le traduzioni). Soldati per caso, uomini ‘normali’ (ma non troppo) che diventano per l’occasione “Monuments men” e che dovranno cavarsela nonostante la loro scarsa confidenza con le atrocità della guerra. Il tutto funziona e l’ironia del gruppo fa pensare a “Ocean’s Eleven”, così come l’odio profondo per i nazisti in alcuni tratti richiama “Bastardi senza gloria” ma il film di George Clooney non è ambizioso come il precedente (“Le idi di marzo”), e tende piuttosto a prendersi poco sul serio, ad affrontare l’avventura di questa missione con leggerezza senza mai farci pesare la drammaticità del momento storico. Ma non si capisce se questo sia un difetto o un pregio del film. Il cast non può che essere eccelso, quando compaiono Bill Murray, John Goodman e Bob Balaban, e soprattutto quando ci sono attori del calibro di Matt Damon, Jean Dujardin e lo stesso Clooney in prima fila nelle loro versioni più “serious” (anche se non ho molto apprezzato la forzatura del doppiaggio italo-francese di Dujardin). La pattuglia di uomini inadeguati alla guerra ma pronti a rischiare la vita per salvare delle opere d'arte non è formata solo da attempati Indiana Jones (anche se non mancano i carrelli della miniera e altri riferimenti qua e là): sono uomini - e una donna marchiata di collaborazionismo – (la sempre perfetta Cate Blanchett) che Clooney ci presenta nella loro umanità e nelle loro debolezze. Insomma questa missione è per loro anche un momento di riscatto (e di gloria in caso di successo) e l’aspetto motivazionale si incastra perfettamente con la necessità di salvare il continente dall’imminente perdita di parte della propria storia. Film interessante senza dubbio, non troppo brillante e tratti anche un po’ didascalico (forse alcuni interventi sono finalizzati proprio a fornire qualche elemento di base agli spettatori che ne sono sprovvisti), ma sicuramente utile di questi tempi in cui l'attenzione verso l'arte e la cultura sembrano passate in secondo piano. Io comunque andrò in Belgio vedere la Madonna di Michelangelo. Si trova nella Chiesa di Nostra Signora, a Bruges. Come direbbe George: What else?

giovedì 20 febbraio 2014

CINEMENTE - PARLAMI D'AMORE

“Il Palazzo delle Esposizioni è il più grande spazio espositivo interdisciplinare nel centro di Roma: più di 10.000 metri quadri, articolati su tre piani, che ospitano eventi culturali e offrono servizi di qualsiasi tipo ai visitatori. Inoltre, il Palazzo è dotato di una Sala Cinema da 139 posti, dell’Auditorium e del Forum (sala polifunzionale), oltre a una caffetteria di 290 mq, un ristorante per 240 persone di 400 mq di e una libreria di 470 mq. Dopo cinque anni di lavori di restauro e riqualificazione funzionale dei suoi spazi, oggi è uno spazio di cultura e suggestioni, capace di proporre progetti qualitativamente elevati, standard tecnologici di eccellenza e politiche di accoglienza degli ospiti attente e moderne. Un centro culturale tra i più aggiornati, in continuo e proficuo scambio con le più importanti istituzioni culturali internazionali.” Questo quello che si legge sul sito omonimo, ma quello che forse non sapete o che non è molto in uso, è che potete vedere tantissimi film (gratuitamente) nella Sala Cinema. Naturalmente non sono quelli in uscita, ma pellicole di solito selezionate in base alle mostre in corso o rassegne cinematografiche a tema, spesso seguite da dibattiti con gli ‘addetti ai lavori’. Per esempio, questa settimana, dal 18 al 23 Febbraio ci sarà Cinemente. Rassegna di psicoanalisi e cinema - Parlami d'amore promossa dalla Società Psicoanalitica Italiana e dalla Cineteca Nazionale - Centro Sperimentale di Cinematografia. Interpellati per l’occasione i nostri migliori registi sensibili all'osservazione delle scelte affettive, e gli psicoanalisti più autorevoli (per le loro competenze sulla natura dell'amore e dei rapporti intimi). Dopo il successo delle due edizioni precedenti, Cinemente offre una nuova occasione per comprendere la natura dei sentimenti, accostando la visione di film, incentrati sull'esperienza affettiva, alla riflessione condotta da registi e psicoanalisti, messi a confronto sulle suggestioni offerte dalle proiezioni. Il loro racconto dell'amore è scandito attraverso alcune tappe fondamentali, come l'innamoramento, la passione, la vita di coppia e i suoi cedimenti al tradimento e alla violenza, con un'attenzione particolare al contesto familiare e sociale al quale le relazioni si ancorano o nel quale miseramente falliscono. Gli incontri sono introdotti da Fabio Castriota, Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana. Stasera se non l’avete visto, danno in proiezione “Cosa voglio di più” con Pierfrancesco Favino. Ve lo consiglio. Sala Cinema – H. 20.00 Scalinata di via Milano 9a Ingresso libero fino ad esaurimento posti

lunedì 10 febbraio 2014

SMETTO QUANDO VOGLIO

Scoppiettante esordio per il primo lungometraggio del regista salernitano Sidney Sibilia che, sul modello de “I soliti ignoti” forma una banda composta di ingenui dilettanti del crimine, sul tragi (comico) sfondo sociale del precariato, ma con la leggerezza tipica di certe riuscitissime commedie britanniche. Finalmente compare qualcosa di nuovo che richiama la grande tradizione nostrana riuscendo a essere divertente ma senza volgarità, e che strizza l’occhio al cinema contemporaneo di genere come "Ocean's Eleven" e "I soliti sospetti", e perché no anche ad Una notte da Leoni. Veramente ben fatto, non me l’aspettavo: una action comedy frizzante, con una Roma Notturna quasi losangelesca e una sequenza di scene sempre in bilico tra il dramma e la commedia brillante, con un Edoardo Leo in strepitosa forma, a metà tra il Prof. Verdone di Acqua e Sapone e il George Clooney “de Noantri”. I protagonisti della commedia (tutti attori conosciuti ma non troppo), sono geniali nella propria disciplina di studi, ma finiscono purtroppo a fare lavori occasionali e dequalificanti, fino a quando uno di loro, Pietro Zinni (Edoardo Leo), genio della biologia lasciato a casa dalle nepotistiche dinamiche universitarie, escogita il modo di fare soldi creando un nuovo tipo di droga non ancora catalogata dal Ministero della Salute e quindi, teoricamente, legale. Mette insieme per questo scopo una banda di ex ‘ricercatori’, accomunati dal fatto di trovarsi in situazioni disagiate e senza reali prospettive di lavoro. Il successo repentino e travolgente (fatto di facili guadagni e ambienti promiscui), li coglierà però impreparati. Si ride di gusto nonostante non si faccia nulla per attenuare l’evidenza di un paese che non ha nulla da offrire alle sue menti più promettenti, e comunque il tema del disagio lavorativo non appesantisce le corde di un film che vibrano con potenza per tutta la sua durata, la potenza del riscatto dalla miseria intellettuale, economica e sociale. Il tutto è dovuto a una sceneggiatura senza sbavature, ad un montaggio dinamico, alla fotografia che richiama volutamente certi filtri di Instagram e un color correction tipo fluo, ma soprattutto alla convincente caratterizzazione di personaggi dal linguaggio forbito che vengono calati in contesti di natura diversa, diventando inevitabilmente spassosi. Il fatto che nel cast non ci siano nomi di grosso richiamo gioca solo a favore della pellicola: finalmente vediamo facce ‘nuove’ e non i soliti volti noti. Anche il messaggio del film è chiaro: se c'è una piccolissima speranza di essere assunti, meglio non dire di essere laureati! "Sì, ma guardi è un errore di gioventù del quale sono profondamente consapevole". Ipse dixit!

venerdì 7 febbraio 2014

PHILIP SEYMOUR HOFFMAN - BIOGRAFIA

Il 2 febbraio scorso è deceduto l’attore Philip Seymour Hoffman, trovato privo di vita nella sua abitazione nel quartiere di Manhattan, con una siringa infilata nel braccio. Una scena piuttosto agghiacciante quella in cui si sono imbattuti gli agenti, entrando nel suo appartamento del Greenwich Village, al 35 di Bethune Street. E muore così, all’età di 46 anni, una leggenda del cinema, premio Oscar come miglior attore protagonista nel 2005 per il ruolo di Truman Capote in “A sangue freddo”. La generazione più giovane associa il suo volto al personaggio dell’inquietante Plutarco Heavensbee di Hunger Games, ma Hoffman ha saputo conquistare tutte le fasce di spettatori diventando uno degli attori più amati d’America. Il New York Times lo considerava “uno dei migliori attori della sua generazione” . In molti lo avevano già notato prima di quel premio, almeno a partire dal 1998, l’anno di film come Il grande Lebowski, Happiness, Patch Adams. A cui hanno fatto seguito Il talento di Mr. Ripley, Onora il padre e la madre, capolavoro di Sidney Lumet, e molti, molti altri ruoli in cui Hoffman ha dimostrato di avere un talento speciale che gli è valso altre tre nomination come attore non protagonista. Io l’ho conosciuto e apprezzato in “I love Radio Rock”, film meno citato tra i suoi più importanti, ma a me è piaciuto tantissimo e ve lo consiglio. Nella sua vita purtroppo non c’erano solo successi. Recentemente aveva ammesso la sua dipendenza da droga e alcol in età giovanile. Si era disintossicato in un centro di riabilitazione e diceva di essere “pulito” da 23 anni. Ma evidentemente non era così. Hoffman è morto per sospetta overdose. Alcuni mesi fa aveva raccontato in un’intervista di aver sviluppato una dipendenza da un farmaco che lo aveva portato di nuovo all’eroina, ma era riuscito subito a disintossicarsi. Era sposato con la costumista Mimi O’Donnell, conosciuta nel 1999, e aveva tre figli: Cooper Alexander, 10 anni, Tallulah, 7, e Willa, 5. Pochi giorni fa era al Sundance Film Festival a presentare i suoi ultimi film: God’s Pocket, e A Most Wanted Man, mentre aveva già girato i due nuovi capitoli di Hunger Games - Il canto della rivolta, già programmati nelle sale italiane a novembre 2014 e 2015. Insomma il lavoro e gli impegni professionali non mancavano di certo. Forse la debolezza di certi attori è proprio nel non saper reggere il peso della notorietà e non saper reagire allo stress che alcuni ruoli comportano. Fino a quando non vengono poi tirati in ballo i gusti sessuali o la dipendenza da droghe e alcol. Oggi, infatti a pochi giorni dalla sua scomparsa esce un giallo sulla sua presunta omosessualità. I detective della Narcotici di New York sono risaliti a una casa modesta di Mott Street, un chilometro dall'appartamento in cui, domenica sera, Philip Seymour Hoffman era stato trovato dal presunto amante David Bar Katz. Lacerato dalla sua doppia identità sessuale: compagno della sceneggiatrice Mimi o'Donnell (madre dei loro tre figli) e partner gay dello sceneggiatore Katz, sembrerebbe che il divo l'avrebbe fatta finita. «Non pensavo che la sua dipendenza fosse a quel punto. Ero l'amante gay di Philip», ha detto il compagno, salvo poi smentire tutto a distanza di qualche ora. Sessualmente confuso, o meno, al 302 di Mott Street, gli investigatori hanno rinvenuto 350 dosi per lo spaccio di strada e hanno arrestato i pusher del premio Oscar. Una magra (e macabra) consolazione per un grande talento che ora non c’è più.

giovedì 6 febbraio 2014

TUTTA COLPA DI FREUD

Mi rendo conto di andare controcorrente e non incontrerò ahimè il favore del pubblico, che sicuramente si sarà fatto quattro risate andando a vedere una ‘commediola leggera’…ma non senza una punta di dispiacere, devo tirare le orecchie a Paolo Genovese, che ci aveva abituati a pellicole come Immaturi e Una famiglia perfetta, sicuramente meglio riuscite e più brillanti di questa ultima fatica che, per carità è ben orchestrata ma si incaglia sui soliti stereotipi uomo-donna. Bisogna valorizzare anche i film nostrani e promuovere i giovani registi italiani, lo dico sempre, però quante lacune in questo nuovo trend del “cinema-vetrina". E per vetrine non scherzo, parlo di quelle della libreria radical chic in centro, o del negozio di arredamento Ovvio (dove si svolge metà del film) o di quelle del Lanificio che tanto si adatta alle nuove storie d’amore. Insomma un po’ un film alla moda intriso di cliché (furbetto oserei dire), che tra un personaggio lampadato e un altro, un loft in pieno centro tutto da distruggere, una New York in bicicletta (o con vista skyline) cerca di filosofeggiare maldestramente sulla vita di coppia per accaparrarsi il favore di un pubblico avvezzo ai consigli d’amore. Un Marco Giallini un po’ spento e sottotono per l’occasione, ci fa rimpiangere i panni in cui solitamente lo cala Carlo Verdone. Lo compensano le apparizioni fugaci di Daniele Liotti, Edoardo Leo e Giammarco Tognazzi, a fare la solita parte dei maschi irrisolti, ma almeno ci siamo rifatte gli occhi. Ma veniamo alla trama: c’è qualche pillola di saggezza sparsa qua e là e qualche altra presa in prestito ai migliori manuali d’amore fai-da-te, ma si disperdono sempre in maniera veloce e impercettibile. La storia è quella di Francesco, uno psicologo cinquantenne che è stato lasciato dalla moglie e ha allevato le tre figlie diventando per loro quasi un amico nonché all’occorrenza anche terapista. Le tra ragazze hanno naturalmente ognuna una storia diversa e strampalata: Sara, omosessuale, viene regolarmente lasciata dalle fidanzate; Marta, libraia, si innamora di scrittori che non la ricambiano; Emma, maturanda, ha avviato una storia con Alessandro, coetaneo di suo padre e per giunta sposato con Claudia. A complicare ulteriormente le cose, Claudia è l'amore segreto di Francesco, ma lui non sa che è la moglie dell’amante di sua figlia. Un gran caos insomma, ma perché tirare in ballo Freud…se tutto risolve con cene e pranzetti? Veniamo alle attrici: Claudia Gerini sembra la sorella bionda della Ferilli (tanto le scoppiano le guance) mentre Vittoria Puccini con quella gonnellina bianca e le magliettine senza reggiseno può sfidare sicuramente Holly Hobbie per la nuova collezione “donne-in-campagna”. La Foglietta non trova pace con l’identità sessuale figuriamoci con i capelli, e quindi per fare la parte della lesbica giustamente se li taglia da maschiaccio, ma almeno è l’unica a farci fare due risate. Gassman ormai recita se stesso, e dunque è credibile nella parte del cinquantenne in crisi. Tutta colpa di Freud ha insomma sé pregi e difetti della commedia italiana di ultima generazione, con una certa predisposizione verso una omologazione da fiction tv, una sorta di “sit-com” dentro il film, ma alla fine a noi italiani piacciono anche queste storie inconcludenti e confuse, dove c’è un po’ di tutto (di tutti).

giovedì 30 gennaio 2014

DALLAS BUYERS CLUB

Trovarmi davanti un Matthew McConaughey così magro ed emaciato mi ha fatto prendere un colpo, quasi quanto Christian Bale nell’Uomo senza sonno. E chi pensa che sia solo un belloccio senza talento, qui avrà molto da ricredersi. Una grande interpretazione, che restituisce dignità e merito sia al personaggio della storia che all’attore, che non si è certo risparmiato e che dopo aver interpretato Killer Joe (un film assurdo solo per chi ha lo stomaco forte), sembra ormai avere una carriera in grande ascesa. Dallas Buyers club aveva già ricevuto il premio BNL del pubblico durante l’ultima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, lo scorso novembre, e Matthew McConaughey era stato premiato in quell’occasione anche come miglior attore. Purtroppo solo virtualmente, in quanto era presente in rappresentanza del cast Jared Leto che, per carità tanto carino, ma io (che ero alla prima all’Auditorium) avrei tanto gradito veder apparire Matthew, vestito come nella pubblicità di Dolce&Gabbana. Oggi la pellicola esce nei cinema italiani e nel frattempo si è aggiudicata altri riconoscimenti: McConaughey e Leto hanno ricevuto i Critics' Choice Movie Awards, rispettivamente come miglior attore protagonista e miglior attore non protagonista. Matthew ha inoltre ricevuto il premio come miglior attore protagonista ai Golden Globe e agli Screen Actors Guild Awards ed è tra i favoriti agli Oscar. Sarà perché è tratto da una storia vera (e sapete quanto io apprezzi questo), ma questo film commuove e diverte nello stesso tempo, seppure nella drammaticità dell’argomento di cui tratta. Mi viene in mente di definirlo un film intelligente, con una giusta sceneggiatura che non scade mai nel banale o nella retorica, con un cast al top della performance (non dimentichiamoci una intensa e delicata Jennifer Garner), un soggetto forte senza sbavature e un protagonista che regge su di sé tutto il peso del suo dramma, con una forza e un attaccamento alla vita inespugnabili. La trama ruota attorno a Ron Woodroof, un elettricista texano che scopre di essere malato di aids e decide di curarsi con farmaci alternativi, che però sono vietati negli Stati Uniti. Quando scopre che i farmaci migliorano le sue condizioni, Woodroof comincia a importarli e contrabbandarli nel suo paese, dando inizio a un braccio di ferro con le autorità. Dallas buyers club fotografa un periodo storico preciso, nel quale l’aids rappresentava un nuovo terrore, le cure costavano molti soldi e l’ignoranza in materia era molto diffusa. E’ un film che racconta lo strano viaggio e la redenzione di un eroe (che poi eroe non è) che farà di tutto per rimanere vivo il più a lungo possibile. Ron vive come se non ci fosse un domani, non credendo alla medicina ma professando solo la religione della droga, del sesso e dell'alcol. La scoperta di non avere realmente un domani a causa della contrazione del virus apre un calvario fisico ma soprattutto psicologico e lo porterà ad un incredibile lavoro di ribaltamento dei più odiosi luoghi comuni omofobi, diventando un eterosessuale che si apre al prossimo, stringendo dei bellissimi legami di amicizia e facendosi portatore di salvezza contro un sistema che sembra negarla.

mercoledì 29 gennaio 2014

PHILOMENA

Quanto tempo era che non piangevo al cinema? Non me lo ricordo, fatto sta che mi è piaciuto. Non capisco perché film come questi non abbiano la promozione che meritano, ma devono sottostare a tutti gli ‘American Hustle’ del momento, con il super cast e i super costumi. Adoro le storie vere, come questa, che ti entrano nel cuore e che quando esci dal cinema te le porti a casa e ti restano dentro per qualche giorno. La storia si svolge in Irlanda e già questo mi riempie gli occhi, con quei paesaggi da scoprire in macchina e quel clima perenemmente colorato di Autunno. Siamo nel 1952: Philomena resta incinta da adolescente e la famiglia la ripudia e la chiude in un convento di suore. La ragazza partorirà un bambino che, dopo pochi anni, le verrà sottratto brutalmente e dato in adozione. Nel 2002 questa fantastica mamma interpretata da una strepitosa Judi Dench, non ha ancora rinunciato all'idea di ritrovare il figlio per sapere almeno che ne è stato di lui e se l’ha mai cercata. Troverà aiuto in un giornalista che, seppur inizialmente controvoglia, accetta di aiutarla nella ricerca. Ciò che scoprirà non sarà proprio quello che si aspettava (o forse si?), ma un viaggio è sempre un viaggio soprattutto se lo si fa alla ricerca di sé stessi e delle proprie radici e lei non si fermerà ai primi ostacoli. Stephen Frears racconta in questo film la storia vera di una madre alla ricerca del figlio perduto, tratta dal libro di Martin Sixsmith "The lost Child of Philomena Lee" che, pubblicato nel 2009, ha consentito a molte donne di sentirsi sostenute nel raccontare il loro 'vergognoso' passato. Frears di lei dice: "Incontrando la vera Philomena Lee ero sorpreso dal fatto che volesse venire sul set, cosa che ha fatto il giorno in cui veniva girata la scena terribile della lavanderia. Philomena è una donna priva di autocommiserazione, che continua ad avere fede nonostante le ingiustizie subite". E’ proprio nella chiusura di questa dichiarazione il senso profondo di un film che sa commuovere, far pensare e creare anche un senso di disagio di fronte a tanto amore per il prossimo perché Philomena è riuscita, a non confondere mai Dio con coloro che talvolta hanno la pretesa di rappresentarlo. Philomena e Martin sono l’incontro tra lo scetticismo e la fede. Sono un bellissimo incontro di anime.