martedì 19 gennaio 2016

QUO VADO

Sono andata anche io a vedere Zalone. Ebbene si. Non perché avessi una pistola puntata alle tempie, né perché mi pagavano per dire la mia, ma volevo dirla lo stesso. In fondo il successo alla fine si basa anche sul tam tam. Vado perché sono curiosa. Ed in ogni caso per poter dire che un piatto di spaghetti è scotto o al dente, lo devi comunque assaggiare. 
In realtà non avendo mai visto un suo film, la mia sembrava una presa di posizione statica e prevenuta, dovuta al fatto che la sua faccia ha una mimica che mi stanca subito. O forse la sua comicità è lontana anni luce dalle commedie che ho amato di più, che fanno parte di una tradizione romana per me inimitabile: quella di Carlo Verdone. Un sacco bello. Bianco Rosso e Verdone. Borotalco. Acqua e Sapone. Troppo Forte. Compagni di scuola. Viaggi di nozze. E molti altri che hanno segnato un’epoca e identificato uno stile nella commedia brillante all’italiana. Per me non c’è storia. Poi possiamo anche parlarne.
Devo essere sincera: il film è divertente, non è in alcun modo assimilabile a un Cine panettone (tanto per citare un genere popolare e di successo) – né si deve pensare che sia per gente incolta come vorrebbero far pensare i detrattori. La sceneggiatura si regge su dialoghi e tempi comici non banali e su una maschera che, pur non piacendomi, possiede obiettivamente una sua originalità e anche una forza espressiva spumeggiante. Il posto fisso poi. Fare un film sull’italiano medio, l’impiego pubblico e la foto di una stagnante politica ministeriale che non ci tiene a cambiare le cose e le persone. Si può essere più furbi? Direi che un merito va riconosciuto solo per avere riabilitato ciò che di più banale e consacrato abbiamo come materia prima, in una rinascita civile ed edulcorata anche dell’uomo più mediocre.
Tralasciando inopportune (e ambiziose) analisi sociologiche che lo vorrebbero come un fenomeno di costume, questo film racchiude ciò che per molti è il vero senso del cinema: ossia l’intrattenimento puro, inteso come passare del tempo facendosi quattro risate. Sacrosanto direi. Certo per chi ne capisce un po’ di più e fa del cinema il suo pane quotidiano, la risata va un po’ stretta se non si può apprezzare altro. Potrei segnalare che l’impressione è che sia una pellicola che va di corsa come un video clip, le cui scene in alcuni casi sembrano volutamente abbozzate con un ritmo sincopato che cela una trama un po’ debole, ma mi fermo qui, perché poi sembrerebbe che ci sia da puntualizzare qualcosa di tecnico, che invece forse ha poco valore dal punto di vista del montaggio e tutto sommato non interessa a nessuno. 
Terminiamo qui tutta questa disputa intorno all’enorme (e inspiegabile?) successo al botteghino di Quo Vado, segnalando che spesso trascuriamo il fatto che il successo a volte sia una mera operazione commerciale: quando un film incassa così tanto, è anche perché dietro c’è anche un’iniziativa imprenditoriale di tutto rispetto, e perché non tutti stanno lì ad aspettare il capolavoro. Noi siamo l’Italia di Checco Zalone, che ci piaccia o no, quindi perché la gente non dovrebbe andare a vederlo?
Zalone è un fenomeno di questi tempi si. Una macchina da guerra per risate in tempi di spending review. Ma lui le olive greche se le sogna.. e pure Lucio Dalla. 

venerdì 8 gennaio 2016

MACBETH


Se non fosse per l’intensa espressività di Michael Fassbender, che comunica con il solo sguardo la metamorfosi del suo personaggio (e che con un bagno nelle acque torbide e gelate della Scozia  vale da solo il prezzo del biglietto), sarebbe difficile digerire un tale “polpettone”: un ibrido poco convincente a metà strada tra 300 e Braveheart.
Deduco sia alquanto complicato ridurre la trama di uno dei capolavori di Shakespeare, e il regista Justin Kurzel cerca di riportare fedelmente sul grande schermo l'intera storia, conservando nella loro interezza (e complessità linguistica) i dialoghi shakespeariani: ma che fatica seguire! 
Purtroppo questo contributo si limita alla messinscena della tragedia shakespeariana, in una Scozia selvaggia e arida, che sembra l’anticamera dell’inferno: per il resto l'adattamento è talmente fedele e devoto al testo da risultare convenzionale e poco originale e, nonostante sia viva e fiammeggiante un’estetica impeccabile, questa di certo non semplifica la complessità dialogica dell’opera teatrale.
Non mi soffermerò particolarmente sulla trama, che vi consiglio di approfondire se avete intenzione di vederlo (per amanti di Shakespeare s’intende), ma è interessante invece cogliere l’aspetto umano (o “disumano” sarebbe il caso di dire) del personaggio Macbeth che, da valoroso condottiero cede alla propria sete di potere per seguire la profezia che lo ha indicato come il futuro re di Scozia, fomentato da una moglie ambiziosa e senza scrupoli che lo porterà ad impazzire e a trasformarsi in un mostro assettato di sangue.
Un’ ascesa al trono che peserà non poco sulle coscienze dei due protagonisti, con l’uccisione del re in carica, e che invocherà una serie di ulteriori delitti sempre più efferati, poiché l’uomo, divorato da dubbi e paure (e tormentato da visioni inquietanti) vedrà  ostacoli in chiunque e cercherà di eliminarli uno ad uno.
Magnetica l’interpretazione di Marion Cotillard, nella parte di Lady Macbeth, moglie dalla maternità frustrata, il cui volto apparentemente angelico cela un'anima corrotta e contaminata dal male, e il cui obiettivo primario è manovrare il marito come una marionetta.
Dal punto di vista della tecnica e dell’estetica, l'utilizzo della slow motion nelle sequenze di battaglia, la desaturazione dei colori, la studiata lentezza dei movimenti contribuiscono in misura essenziale a rafforzare il sanguinario percorso di Macbeth e restituiscono sicuramente una sorta di dignità all’opera; ma l’azione, tra studiati rallenty e virtuosismi scenici, non concede spazio alle emozioni che risultano addomesticate in una sceneggiatura troppo rigida con una ridondanza verbale eccessiva, impantanandola in un prodotto troppo ‘formale’.
Il senso di inevitabile e tragica astrazione dalla realtà, l'ossessione per il potere che si manifesta in sete di distruzione, il Castello che sembra evocare una prigione dell’anima, la foresta di Birnam, che nel finale 'avanza' contro Macbeth: sono tutti segnali che la figura umana si è dissolta definitivamente, mentre si spalanca un inferno di fuoco e di sangue, ma tolto questo aspetto “fantasy” rimane ben poco. E nell'epilogo, durante il duello conclusivo fra Macbeth e il suo giustiziere Macduff, i filtri rossi della fotografia imprimono il carattere di un'opera coraggiosamente visionaria ma troppo essenziale. Scarno. 

martedì 5 gennaio 2016

CAROL



Seduta da sola in Auditorium per l’anteprima mondiale alla Festa del Cinema di Roma, ho avuto la fortuna di vedere Carol in lingua originale e di apprezzarlo insieme a tante persone che, come me, non finivano di applaudire alla fine della proiezione. Sono quelle storie che ti rimangono appiccicate addosso anche quando in sala si spengono le luci.
Pensavo di trovarmi davanti all'ennesimo film sull'amore saffico, sulla scia di una tendenza cinematografica ormai più o meno consolidata -  da La vita di Adele a Freeheld -  ma Carol è molto di più. E stupisce in che modo delicato il regista Todd Haynes abbia saputo regalarci uno spaccato femminile impeccabile, che non cerca mai di gridare allo scandalo né tanto meno di raccontare dispute civili o politiche, perché le conquiste di cui parla vanno bel oltre l’ipocrisia dell’epoca e hanno a che fare con la dignità, il coraggio e la forza che solo certe donne meravigliose possiedono.
Acclamato all’ultimo Festival di Cannes dove ha meritato il premio per l’interpretazione di Rooney Mara, il film esce oggi in Italia, proprio alla vigilia dell’attribuzione dei Golden Globes ai quali concorre con cinque nomination ed è ispirato al romanzo The Price of Salt di Patricia Highsmith, pubblicato nel 1952 e naturalmente censurato: un testo che mise a dura prova il perbenismo borghese di quel periodo.
L’incontro fra le due donne è indimenticabile, a pochi giorni dal Natale del 1952, intimo e delicato come quei rari momenti nella vita in cui ci si riconosce negli occhi dell'altro ed il tempo sembra fermarsi: entrambi gli sguardi delle protagoniste si soffermano su un trenino giocattolo che passa oltre le montagne di cartone, in un grande magazzino di una New York fumosa e un po' rétro. Da una parte la sofisticata e apparentemente algida Carol, madre sull'orlo del divorzio, in cerca di un regalo per sua figlia (sposata con un uomo che evidentemente non accetta la sua omosessualità), e dall’altra Therese, giovane e fragile commessa indecisa persino su cosa ordinare a pranzo.
Si osservano, si scrutano, e il regista non ci risparmia le continue riprese sui loro sguardi, ed è proprio appoggiandosi sui loro occhi che percepiamo l'infelicità sorda di Carol, una donna matura ma malinconica, e l'irrequietezza acerba di Therese, unite da un’inconsapevole e coraggiosa sfacciataggine che le farà osare spingendosi ben oltre l'amicizia. E Haynes non smette di mostrarci l’inquietudine e il sapore di questa scoperta, che passa tra le corse in auto e la fuga negli hotel, in un viaggio che ha ben poco di avventuroso e romantico se non il tentativo maldestro di vivere disperatamente l'amore in tutte le sue sfaccettature. E sembra quasi che l'aspetto rilevante non sia la passione per un’altra donna, quanto piuttosto rafforzare la propria dimensione, e portare avanti la lotta che Carol ingaggia con sé stessa, per non perdere tutto pur cercando di restare fedele alla sua audace natura anticonformista.
Volutamente claustrofobico, nel film ciascun personaggio è segnato dal luogo in cui è confinato, Carol nella sua grande villa di un sobborgo benestante, Therese nel suo piccolo appartamento in città, come se le protagoniste non avessero altra vita che quella concessa dal luogo in cui vivono.
Eppure la ricerca spasmodica di un’identità soffocata, l’inesauribile carica emotiva di due donne così diverse eppure così vicine, le porterà ben più lontano di quello che avrebbero sperato, superando ostacoli che sembravano insormontabili e inseguendo passioni e ambizioni che le condurranno su un cammino che  le vedrà protagoniste di un nuovo destino. Troneggia un’intensa e sensuale Cate Blanchett, irrequieta come le sigarette che fuma, in un film elegante e raffinato che trasuda magia e sentimento. Viscerale.