venerdì 14 marzo 2014

ALLACCIATE LE CINTURE

Tredici anni di vita sono tanti per qualsiasi coppia: può succedere di tutto, anche se ci si è amati tanto. Ripercorriamo a partire dai duemila, in una Lecce sempre molto charmante, la storia di due giovani bellissimi e pieni di passione ma diversi per estrazione sociale e carattere, due giovani che si odiano, si amano, si tradiscono, soffrono e saranno messi a dura prova dalla malattia e dell'ombra della morte. Lei Elena, di buona famiglia, fa la cameriera e il suo sogno è mettere su un locale tutto suo, spalleggiata dall'amico gay Fabio. Lui, Antonio, fa il meccanico, è senza ombra di dubbio razzista e pieno di tatuaggi. I due, si incontrano in una giornata piovosa e litigano brutalmente. Ci piacciono da subito, perché amiamo le storie impossibili e legate da chissà quale filo conduttore. Il loro innamorarsi è il momento migliore del film, secondo me. C’è l’attesa, il rincorrersi, il fascino del proibito. Non si capisce se ce la faranno..e invece poi li ritrovi "formato-Famiglia". Fino a quasi metà del film Ozpetek mi ha pure ingannato: ho pensato che si tornasse a parlare d’amore, di sentimenti, di affetti reali che oltrepassano le dinamiche di genere, e superano il tempo. Ho pensato: finalmente una bella storia d'amore di quelle che ti fanno sognare. Poi ad un certo punto il dramma, la malattia. Quella al cospetto della quale non puoi che aspettarti il momento della riflessione e del ritorno in sé, perché fino a quel giorno forse ti eri solo lasciato vivere. Quella che al cinema non vorresti mai vedere, non perché non esista, ma perché ci vuole anche un po’ di pudore nel raccontare il dolore e perché sembra sempre che non si ricorre a qualche triste escamotage, la vita affettiva non abbia il valore che merita. Insomma lo stratagemma retorico e melò lo vedo sempre, quello per catturare l’attenzione dello spettatore per intenderci e farlo un po’ intenerire (che poi nemmeno tanto). Che non vuol dire che il regista non abbia provato a raccontare il dramma personale in maniera delicata (e a tratti scherzosa), ma non ne ho colto appieno il significato. Quello di riscattarsi da una conflittuale e stanca vita matrimoniale a causa di un avvenimento doloroso? Il risultato è una comicità che andrebbe bene in “Mine vaganti” ma che non riesce a legare con una drammaticità a tratti superiore a quella de “La finestra di fronte”. La storia c'è (c’era almeno), amore ed amicizia si intrecciano tra gesti controllati e istinti passionali, ma la sensazione del vuoto d'aria si è persa strada facendo. Anche la malattia di Elena, che pure capovolge i ruoli e riequilibra i sentimenti, passa forse troppo velocemente. Insomma avremmo preferito mantenere la sensazione delle farfalle allo stomaco che ci ha accompagnato all’inizio, invece che uscire con il magone. Salvo Elena Sofia Ricci e le sue fantastiche battute. Kasia Smutniak per me è bellissima e può uscire di casa così com'è, anche la mattina appena sveglia. Francesco Arca è meno peggio di quello che pensavo...(no dico ve lo ricordate Raoul Bova agli inizi??). In ogni caso la parte del tenebroso tatuato è la sua ed ha un bel sedere. Nulla di più. Se volete rifarvi gli occhi ok ma vivamente sconsigliato a chi è un po' angosciato di suo.


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