mercoledì 26 febbraio 2014

MONUMENTS MEN - WHAT ELSE?

Una bella squadra quella capitanata (e diretta) da George Clooney che ripercorre una storia realmente accaduta: quella di un gruppo di storici che si lanciano nell’impresa di salvare delle opere d’arte dalla furia devastatrice di un Hitler ormai vicino alla resa. Siamo ormai sul finire della guerra e mentre le forze alleate sferrano il loro attacco alla Germania, lo storico dell'arte Frank Stokes ottiene l'autorizzazione da Roosevelt per mettere insieme un gruppo di esperti che ha il compito di recuperare tutto ciò che Hitler ha trafugato in previsione della costruzione dell’imponente Museo del Fuhrer. In caso di sconfitta del Reich, infatti l'ordine è di distruggere tutto. Si viene così a creare una compagnia formata da due storici e un esperto d'arte, un architetto, uno scultore, un mercante, un pilota britannico e un soldato ebreo tedesco (per le traduzioni). Soldati per caso, uomini ‘normali’ (ma non troppo) che diventano per l’occasione “Monuments men” e che dovranno cavarsela nonostante la loro scarsa confidenza con le atrocità della guerra. Il tutto funziona e l’ironia del gruppo fa pensare a “Ocean’s Eleven”, così come l’odio profondo per i nazisti in alcuni tratti richiama “Bastardi senza gloria” ma il film di George Clooney non è ambizioso come il precedente (“Le idi di marzo”), e tende piuttosto a prendersi poco sul serio, ad affrontare l’avventura di questa missione con leggerezza senza mai farci pesare la drammaticità del momento storico. Ma non si capisce se questo sia un difetto o un pregio del film. Il cast non può che essere eccelso, quando compaiono Bill Murray, John Goodman e Bob Balaban, e soprattutto quando ci sono attori del calibro di Matt Damon, Jean Dujardin e lo stesso Clooney in prima fila nelle loro versioni più “serious” (anche se non ho molto apprezzato la forzatura del doppiaggio italo-francese di Dujardin). La pattuglia di uomini inadeguati alla guerra ma pronti a rischiare la vita per salvare delle opere d'arte non è formata solo da attempati Indiana Jones (anche se non mancano i carrelli della miniera e altri riferimenti qua e là): sono uomini - e una donna marchiata di collaborazionismo – (la sempre perfetta Cate Blanchett) che Clooney ci presenta nella loro umanità e nelle loro debolezze. Insomma questa missione è per loro anche un momento di riscatto (e di gloria in caso di successo) e l’aspetto motivazionale si incastra perfettamente con la necessità di salvare il continente dall’imminente perdita di parte della propria storia. Film interessante senza dubbio, non troppo brillante e tratti anche un po’ didascalico (forse alcuni interventi sono finalizzati proprio a fornire qualche elemento di base agli spettatori che ne sono sprovvisti), ma sicuramente utile di questi tempi in cui l'attenzione verso l'arte e la cultura sembrano passate in secondo piano. Io comunque andrò in Belgio vedere la Madonna di Michelangelo. Si trova nella Chiesa di Nostra Signora, a Bruges. Come direbbe George: What else?

giovedì 20 febbraio 2014

CINEMENTE - PARLAMI D'AMORE

“Il Palazzo delle Esposizioni è il più grande spazio espositivo interdisciplinare nel centro di Roma: più di 10.000 metri quadri, articolati su tre piani, che ospitano eventi culturali e offrono servizi di qualsiasi tipo ai visitatori. Inoltre, il Palazzo è dotato di una Sala Cinema da 139 posti, dell’Auditorium e del Forum (sala polifunzionale), oltre a una caffetteria di 290 mq, un ristorante per 240 persone di 400 mq di e una libreria di 470 mq. Dopo cinque anni di lavori di restauro e riqualificazione funzionale dei suoi spazi, oggi è uno spazio di cultura e suggestioni, capace di proporre progetti qualitativamente elevati, standard tecnologici di eccellenza e politiche di accoglienza degli ospiti attente e moderne. Un centro culturale tra i più aggiornati, in continuo e proficuo scambio con le più importanti istituzioni culturali internazionali.” Questo quello che si legge sul sito omonimo, ma quello che forse non sapete o che non è molto in uso, è che potete vedere tantissimi film (gratuitamente) nella Sala Cinema. Naturalmente non sono quelli in uscita, ma pellicole di solito selezionate in base alle mostre in corso o rassegne cinematografiche a tema, spesso seguite da dibattiti con gli ‘addetti ai lavori’. Per esempio, questa settimana, dal 18 al 23 Febbraio ci sarà Cinemente. Rassegna di psicoanalisi e cinema - Parlami d'amore promossa dalla Società Psicoanalitica Italiana e dalla Cineteca Nazionale - Centro Sperimentale di Cinematografia. Interpellati per l’occasione i nostri migliori registi sensibili all'osservazione delle scelte affettive, e gli psicoanalisti più autorevoli (per le loro competenze sulla natura dell'amore e dei rapporti intimi). Dopo il successo delle due edizioni precedenti, Cinemente offre una nuova occasione per comprendere la natura dei sentimenti, accostando la visione di film, incentrati sull'esperienza affettiva, alla riflessione condotta da registi e psicoanalisti, messi a confronto sulle suggestioni offerte dalle proiezioni. Il loro racconto dell'amore è scandito attraverso alcune tappe fondamentali, come l'innamoramento, la passione, la vita di coppia e i suoi cedimenti al tradimento e alla violenza, con un'attenzione particolare al contesto familiare e sociale al quale le relazioni si ancorano o nel quale miseramente falliscono. Gli incontri sono introdotti da Fabio Castriota, Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana. Stasera se non l’avete visto, danno in proiezione “Cosa voglio di più” con Pierfrancesco Favino. Ve lo consiglio. Sala Cinema – H. 20.00 Scalinata di via Milano 9a Ingresso libero fino ad esaurimento posti

lunedì 10 febbraio 2014

SMETTO QUANDO VOGLIO

Scoppiettante esordio per il primo lungometraggio del regista salernitano Sidney Sibilia che, sul modello de “I soliti ignoti” forma una banda composta di ingenui dilettanti del crimine, sul tragi (comico) sfondo sociale del precariato, ma con la leggerezza tipica di certe riuscitissime commedie britanniche. Finalmente compare qualcosa di nuovo che richiama la grande tradizione nostrana riuscendo a essere divertente ma senza volgarità, e che strizza l’occhio al cinema contemporaneo di genere come "Ocean's Eleven" e "I soliti sospetti", e perché no anche ad Una notte da Leoni. Veramente ben fatto, non me l’aspettavo: una action comedy frizzante, con una Roma Notturna quasi losangelesca e una sequenza di scene sempre in bilico tra il dramma e la commedia brillante, con un Edoardo Leo in strepitosa forma, a metà tra il Prof. Verdone di Acqua e Sapone e il George Clooney “de Noantri”. I protagonisti della commedia (tutti attori conosciuti ma non troppo), sono geniali nella propria disciplina di studi, ma finiscono purtroppo a fare lavori occasionali e dequalificanti, fino a quando uno di loro, Pietro Zinni (Edoardo Leo), genio della biologia lasciato a casa dalle nepotistiche dinamiche universitarie, escogita il modo di fare soldi creando un nuovo tipo di droga non ancora catalogata dal Ministero della Salute e quindi, teoricamente, legale. Mette insieme per questo scopo una banda di ex ‘ricercatori’, accomunati dal fatto di trovarsi in situazioni disagiate e senza reali prospettive di lavoro. Il successo repentino e travolgente (fatto di facili guadagni e ambienti promiscui), li coglierà però impreparati. Si ride di gusto nonostante non si faccia nulla per attenuare l’evidenza di un paese che non ha nulla da offrire alle sue menti più promettenti, e comunque il tema del disagio lavorativo non appesantisce le corde di un film che vibrano con potenza per tutta la sua durata, la potenza del riscatto dalla miseria intellettuale, economica e sociale. Il tutto è dovuto a una sceneggiatura senza sbavature, ad un montaggio dinamico, alla fotografia che richiama volutamente certi filtri di Instagram e un color correction tipo fluo, ma soprattutto alla convincente caratterizzazione di personaggi dal linguaggio forbito che vengono calati in contesti di natura diversa, diventando inevitabilmente spassosi. Il fatto che nel cast non ci siano nomi di grosso richiamo gioca solo a favore della pellicola: finalmente vediamo facce ‘nuove’ e non i soliti volti noti. Anche il messaggio del film è chiaro: se c'è una piccolissima speranza di essere assunti, meglio non dire di essere laureati! "Sì, ma guardi è un errore di gioventù del quale sono profondamente consapevole". Ipse dixit!

venerdì 7 febbraio 2014

PHILIP SEYMOUR HOFFMAN - BIOGRAFIA

Il 2 febbraio scorso è deceduto l’attore Philip Seymour Hoffman, trovato privo di vita nella sua abitazione nel quartiere di Manhattan, con una siringa infilata nel braccio. Una scena piuttosto agghiacciante quella in cui si sono imbattuti gli agenti, entrando nel suo appartamento del Greenwich Village, al 35 di Bethune Street. E muore così, all’età di 46 anni, una leggenda del cinema, premio Oscar come miglior attore protagonista nel 2005 per il ruolo di Truman Capote in “A sangue freddo”. La generazione più giovane associa il suo volto al personaggio dell’inquietante Plutarco Heavensbee di Hunger Games, ma Hoffman ha saputo conquistare tutte le fasce di spettatori diventando uno degli attori più amati d’America. Il New York Times lo considerava “uno dei migliori attori della sua generazione” . In molti lo avevano già notato prima di quel premio, almeno a partire dal 1998, l’anno di film come Il grande Lebowski, Happiness, Patch Adams. A cui hanno fatto seguito Il talento di Mr. Ripley, Onora il padre e la madre, capolavoro di Sidney Lumet, e molti, molti altri ruoli in cui Hoffman ha dimostrato di avere un talento speciale che gli è valso altre tre nomination come attore non protagonista. Io l’ho conosciuto e apprezzato in “I love Radio Rock”, film meno citato tra i suoi più importanti, ma a me è piaciuto tantissimo e ve lo consiglio. Nella sua vita purtroppo non c’erano solo successi. Recentemente aveva ammesso la sua dipendenza da droga e alcol in età giovanile. Si era disintossicato in un centro di riabilitazione e diceva di essere “pulito” da 23 anni. Ma evidentemente non era così. Hoffman è morto per sospetta overdose. Alcuni mesi fa aveva raccontato in un’intervista di aver sviluppato una dipendenza da un farmaco che lo aveva portato di nuovo all’eroina, ma era riuscito subito a disintossicarsi. Era sposato con la costumista Mimi O’Donnell, conosciuta nel 1999, e aveva tre figli: Cooper Alexander, 10 anni, Tallulah, 7, e Willa, 5. Pochi giorni fa era al Sundance Film Festival a presentare i suoi ultimi film: God’s Pocket, e A Most Wanted Man, mentre aveva già girato i due nuovi capitoli di Hunger Games - Il canto della rivolta, già programmati nelle sale italiane a novembre 2014 e 2015. Insomma il lavoro e gli impegni professionali non mancavano di certo. Forse la debolezza di certi attori è proprio nel non saper reggere il peso della notorietà e non saper reagire allo stress che alcuni ruoli comportano. Fino a quando non vengono poi tirati in ballo i gusti sessuali o la dipendenza da droghe e alcol. Oggi, infatti a pochi giorni dalla sua scomparsa esce un giallo sulla sua presunta omosessualità. I detective della Narcotici di New York sono risaliti a una casa modesta di Mott Street, un chilometro dall'appartamento in cui, domenica sera, Philip Seymour Hoffman era stato trovato dal presunto amante David Bar Katz. Lacerato dalla sua doppia identità sessuale: compagno della sceneggiatrice Mimi o'Donnell (madre dei loro tre figli) e partner gay dello sceneggiatore Katz, sembrerebbe che il divo l'avrebbe fatta finita. «Non pensavo che la sua dipendenza fosse a quel punto. Ero l'amante gay di Philip», ha detto il compagno, salvo poi smentire tutto a distanza di qualche ora. Sessualmente confuso, o meno, al 302 di Mott Street, gli investigatori hanno rinvenuto 350 dosi per lo spaccio di strada e hanno arrestato i pusher del premio Oscar. Una magra (e macabra) consolazione per un grande talento che ora non c’è più.

giovedì 6 febbraio 2014

TUTTA COLPA DI FREUD

Mi rendo conto di andare controcorrente e non incontrerò ahimè il favore del pubblico, che sicuramente si sarà fatto quattro risate andando a vedere una ‘commediola leggera’…ma non senza una punta di dispiacere, devo tirare le orecchie a Paolo Genovese, che ci aveva abituati a pellicole come Immaturi e Una famiglia perfetta, sicuramente meglio riuscite e più brillanti di questa ultima fatica che, per carità è ben orchestrata ma si incaglia sui soliti stereotipi uomo-donna. Bisogna valorizzare anche i film nostrani e promuovere i giovani registi italiani, lo dico sempre, però quante lacune in questo nuovo trend del “cinema-vetrina". E per vetrine non scherzo, parlo di quelle della libreria radical chic in centro, o del negozio di arredamento Ovvio (dove si svolge metà del film) o di quelle del Lanificio che tanto si adatta alle nuove storie d’amore. Insomma un po’ un film alla moda intriso di cliché (furbetto oserei dire), che tra un personaggio lampadato e un altro, un loft in pieno centro tutto da distruggere, una New York in bicicletta (o con vista skyline) cerca di filosofeggiare maldestramente sulla vita di coppia per accaparrarsi il favore di un pubblico avvezzo ai consigli d’amore. Un Marco Giallini un po’ spento e sottotono per l’occasione, ci fa rimpiangere i panni in cui solitamente lo cala Carlo Verdone. Lo compensano le apparizioni fugaci di Daniele Liotti, Edoardo Leo e Giammarco Tognazzi, a fare la solita parte dei maschi irrisolti, ma almeno ci siamo rifatte gli occhi. Ma veniamo alla trama: c’è qualche pillola di saggezza sparsa qua e là e qualche altra presa in prestito ai migliori manuali d’amore fai-da-te, ma si disperdono sempre in maniera veloce e impercettibile. La storia è quella di Francesco, uno psicologo cinquantenne che è stato lasciato dalla moglie e ha allevato le tre figlie diventando per loro quasi un amico nonché all’occorrenza anche terapista. Le tra ragazze hanno naturalmente ognuna una storia diversa e strampalata: Sara, omosessuale, viene regolarmente lasciata dalle fidanzate; Marta, libraia, si innamora di scrittori che non la ricambiano; Emma, maturanda, ha avviato una storia con Alessandro, coetaneo di suo padre e per giunta sposato con Claudia. A complicare ulteriormente le cose, Claudia è l'amore segreto di Francesco, ma lui non sa che è la moglie dell’amante di sua figlia. Un gran caos insomma, ma perché tirare in ballo Freud…se tutto risolve con cene e pranzetti? Veniamo alle attrici: Claudia Gerini sembra la sorella bionda della Ferilli (tanto le scoppiano le guance) mentre Vittoria Puccini con quella gonnellina bianca e le magliettine senza reggiseno può sfidare sicuramente Holly Hobbie per la nuova collezione “donne-in-campagna”. La Foglietta non trova pace con l’identità sessuale figuriamoci con i capelli, e quindi per fare la parte della lesbica giustamente se li taglia da maschiaccio, ma almeno è l’unica a farci fare due risate. Gassman ormai recita se stesso, e dunque è credibile nella parte del cinquantenne in crisi. Tutta colpa di Freud ha insomma sé pregi e difetti della commedia italiana di ultima generazione, con una certa predisposizione verso una omologazione da fiction tv, una sorta di “sit-com” dentro il film, ma alla fine a noi italiani piacciono anche queste storie inconcludenti e confuse, dove c’è un po’ di tutto (di tutti).