giovedì 31 luglio 2014

SPAGHETTI STORY

Sarà che mi sono seduta all’Arena di Garbatella già ben disposta verso questa commedia dolce-amara, che sapevo aver riscosso un discreto consenso nonostante il low budget. Sarà che conosco Valerio, il protagonista, che è veramente un attore in erba, che faceva il cameriere in un noto locale in zona Ostiense e quindi tutto ciò rende ancora più credibile la storia di chi passa dal servire ai tavoli al grande pubblico in sala (cinematografica a questo punto). Sarà che ci sono gli Spaghetti di mezzo nel titolo come nel mio Blog, e il tutto rimanda a storie che trasudano semplicità e amicizia (a basso costo), ergo non potrei non promuovere Spaghetti story a pieni voti.
Il film, primo lungometraggio del regista romano Ciro De Caro, racconta a modo suo uno spaccato della precarietà giovanile, e lo fa in maniera genuina e autentica. Costato solo 15mila euro, per girarlo ci sono voluti solo 11 giorni ed è stato realizzato utilizzando una sola ottica, senza nessun primo piano e senza effetti speciali. In fondo non servono grandi mezzi per raccontare belle storie.
Il cinema italiano c’è, esiste e si fa con una buona sceneggiatura e un cast affiatato e brillante. La storia è quella di Valerio, un aspirante attore di ventinove anni che non riesce a sbarcare il lunario e si adatta a fare qualsiasi cosa, suscitando le ire dell'amico d'infanzia Christian, che è un pusher (stra-ironico e super simpatico) che fa affari con la malavita cinese e vuole trascinare l’amico nelle sue losche avventure.
La fidanzata di Valerio, Serena, ha una borsa di studio grazie a un dottorato di ricerca ma ad un certo punto comincia a sentire il richiamo dell'orologio biologico e non manca di farlo presente, scatenando non poche tensioni. C’è poi Giovanna, sorella di Valerio, che fa la fisioterapista e aiuta il fratello, cercando di farlo crescere e incoraggiandolo a prendersi le sue responsabilità. Ognuno giudica l’altro, ma è cieco di fronte alle proprie esigenze e potenzialità. A cambiare le loro vite sarà la giovane prostituta cinese Mei Mei (Deng XueYing), che li metterà inaspettatamente alla prova regalandogli un’altra prospettiva per vedere le cose. Nel panorama della commedia italiana contemporanea, in cui hanno quasi sempre la meglio gli allestimenti para televisivi popolati da giovani goderecci e festaioli, finalmente non ci tocca assistere alla solita vetrina di tatuaggi e depilazioni alla Francesca Arca e al racconto della vita di “figli di papà” che abitano in loft superaccessoriati in centro.
L'esordiente Ciro De Caro racconta il mondo dei giovani in modo assolutamente realistico, e lo fa con assoluta schiettezza rappresentando in maniera lucida l’umiliazione e l’apatia che la precarietà lavorativa provoca nei protagonisti, inducendoli a inibire i propri sogni, nel caso di Valerio, o scatenando il pragmatismo più spietato, nel caso di Christian. Valerio Di Benedetto e Christian Di Sante sono bravi davvero: hanno tempi comici impeccabili, l'uno nelle vesti di primo attore (primadonna), l'altro in quelle di caratterista (non perdetevi le sue perle di saggezza), hanno la giusta dose di umanità e ci hanno regalato non poche risate di qualità. Ma in questa storia il premio va alle protagoniste femminili, capaci di riscattarsi e di reagire in maniera eccelsa alle prove di scarsa virilità di maschi spodestati dal ruolo di capofamiglia: nonne, sorelle, fidanzate - si rimboccano le maniche con una concretezza e una solidarietà che le rende capaci di comprendere anche le situazioni più assurde, garantendo assistenza e protezione. Grazie per questo spaccato di vita, così sensibile e attento ai valori umani e ai rapporti interpersonali, all'unione che fa la forza, e al precariato che ti costringe a essere combattivo. Sempre.

venerdì 25 luglio 2014

12 ANNI SCHIAVO

12 anni schiavo: la statuetta più importante, quella come miglior film, e altri due premi Oscar ‘minori’, alla migliore sceneggiatura non originale di John Ridley (tratta dalle memorie di Solomon Northup) e alla bravissima e giovanissima attrice non protagonista Lupita Nyong’o. Eppure non avevo ancora visto questo film, perché leggendone la trama e conoscendo bene lo stile del regista Steve McQueen (omonimo del famoso attore), temevo l’angoscia e il disagio che avrei provato alla fine della pellicola. E così è stato. Diverso da Shame, ma ugualmente shoccante… Solomon Northup è un musicista nero e un uomo libero nello stato di New York. Ingannato da due impostori, viene drogato e venduto come schiavo a un ricco proprietario del Sud agrario e schiavista. Strappato alla sua vita, alla moglie e ai suoi bambini, Solomon si infila in un incubo lungo dodici anni provando sulla propria pelle la crudeltà degli uomini e la tragedia della sua gente. A colpi di frusta e di padroni vigliaccamente deboli e degenerati, Solomon avanzerà nel cuore della più vergognosa parentesi della storia americana provando a restare vivo e a riprendersi il suo nome. In suo soccorso arriverà Bass (Brad Pitt anche tra i produttori non poteva mancare), abolizionista canadese, che metterà fine al suo incubo. Adattamento del romanzo omonimo e biografico di Solomon Northup, di cui il regista britannico adotta i dodici anni del titolo e affida alle didascalie conclusive la battaglia legale sostenuta e persa dall'autore contro gli uomini che lo hanno rapito e venduto, 12 anni schiavo corrisponde perfettamente l'ossessione di McQueen: lo svilimento progressivo del corpo sottomesso alla violenza del mondo. Da più di un anno il cinema americano prova a fare i conti con la mostruosità della schiavitù, e non pochi registi si sono cimentato con questo tema. McQueen decide per la denuncia attraverso una rappresentazione esplicita, esibita, oscena, a lui tanto cara, che mira evidentemente a risvegliare la coscienza intorpidita dello spettatore e non fa sconti a nessuno. Il male è il male e non ci sono possibilità di comprensione, tantomeno di redenzione. La macchina da presa di McQueen, che indugia sulla pelle lacerata dalle continue frustrate sulla nuda schiena della serva Patsey (una straordinaria Lupita Nyong’o, alla sua prima prova d’attrice) con un estremo susseguirsi di dettagli cruenti, vuole lacerarci l’anima. Eppure si sente che manca qualcosa. E a me questa violenza è apparsa più di una volta gratuita. Un uomo disperato cerca di ritrovare la propria libertà, rassegnandosi giorno dopo giorno alla schiavitù, sopportando torture fisiche e psicologiche sulla carne e nell'anima. Il sovraccarico drammatico, la pesantezza dei corpi martirizzati dalla violenza e dai frequenti colpi di scena, che si appagano soltanto nei piani notturni e nelle stasi irreali della Louisiana, finiscono per essere l'argomento privilegiato della sua requisitoria e per trascurarne la dimensione sostanziale. McQueen liquida la complessità del passato e di un sistema abominevole a favore della sua spettacolarizzazione e dei suoi effetti perversi, tutti incarnati dallo schiavista sadico e compulsivo di Michael Fassbender, attore feticcio e interprete per la terza volta del pensiero ossessivo dell'autore. Probabilmente esistono film che, per coscienza sociale, vanno visti “per non dimenticare”. 12 Anni Schiavo è uno di questi, nulla di più.

martedì 15 luglio 2014

SONG'E NAPULE

Sono assolutamente di parte perché adoro Napoli e l'inconfondibile stile partenopeo, ma ho trovato questo film delizioso e scoppiettante, sarà pure per la presenza del credibilissimo Giampaolo Morelli (per me l’adorato Coliandro), questa volta nei panni di un super cafone dall’improbabile nome d’arte “Lollo Love”.
Per i Manetti Bros, Marco e Antonio, è arrivata finalmente la consacrazione definitiva con questa pellicola così spassosa e divertente, dopo una lunga militanza tra cinema popolare e di genere, serialità, fumetto e musica.
Una Napoli che non tace le sue magagne ma è osservata sotto una luce benevola, e fa da scenario alle imprese di un giovane e timido pianista, Paco, che dopo il diploma al conservatorio è purtroppo ancora disoccupato. La mamma gli trova suo malgrado una raccomandazione per farlo entrare in polizia, ma la sua totale inettitudine lo relega in un deposito giudiziario. Un giorno arriva Cammarota, un mastino dell’anticrimine sulle tracce di un pericoloso killer della camorra, detto O’ Fantasma (perché nessuno conosce il suo vero volto) e infiltra il giovane e inesperto ragazzo in un’operazione rischiosa, con il compito di fare una foto al famigerato criminale di cui nessuno conosce le fattezze. Al commissario serve proprio un poliziotto (e pianista) che dovrà fingersi un musicista del gruppo di Lollo Love, noto cantante neomelodico che canterà al matrimonio di Antonietta Stornaienco, figlia del boss di Somma Vesuviana che sicuramente inviterà O’ Fantasma alla cerimonia. Sarà compito proprio dell’intimorito Paco, in arte Pino Dinamite, abbigliato come un coatto e costretto a suonare quella musica per lui inascoltabile, affrontare con serietà e ardore il compito di arrestare il killer. Lo spunto narrativo dei Manetti Bros prende corpo proprio dall'esperienza dei suoi attori: Alessandro Roja (Paco), Giampaolo Morelli, Paolo Sassanelli, Carlo Buccirosso e Peppe Servillo, incarnano l'essenza della napoletanità e regalano performance memorabili. Ma non si esauriscono nel cast i meriti di Song'e Napule, film che umilia la camorra ed esalta la polizia proprio come in un poliziesco italiano degli anni Settanta: dal commissario dal pugno di ferro, alla rappresentazione cupa degli ambienti criminali, all'esplosione improvvisa di una violenza cieca e sanguinaria, all'aspetto comico grottesco, all'accompagnamento musicale incalzante e per finire all'immancabile inseguimento a bordo di un Alfa Romeo.
A interpretare alla perfezione l'idea del personaggio di Lollo Love è Giampaolo Morelli, anche autore del soggetto, che riabilita i cantanti neomelodici napoletani, smentendo l'idea che dietro a questa 'industria del trash' ci sia la camorra. Lollo, sogna come tutti i cantanti Sanremo e la scena nazionale ma un imprenditore sfaticato, lo costringe dentro i confini della città. Paco, a sua volta, si troverà a riconsiderare il suo rapporto con Napoli complice l’amore segreto per Marianna (la sorella di Lollo), e l'inaspettata amicizia con Lollolove gli daranno il coraggio necessario per affrontare la sua sfida più grande, quella di essere se stesso.
Cuoricini per tutti!!

lunedì 14 luglio 2014

JERSEY BOYS

Sono andata un po’ prevenuta, perché avevo letto critiche abbastanza spietate sulla pellicola, definita come un prodotto minore della filmografia di Clint Eastwood ma volevo verificare di persona e mi fido troppo della sua bravura per lasciar ad altri il compito di recensirlo in malo modo! E infatti a 84 anni suonati è ancora dietro la cinepresa, e l’inimitabile Eastwood ritorna a far parlare di sé e di buona musica soprattutto, forse in un genere un po’ diverso da quello a cui ci ha abituati, ma non per questo di minor impatto. La storia del gruppo dei Four Seasons non è infatti la sua prima pellicola ad inserirsi nel genere del biopic musicale e al tempo in cui decise di riportare sul grande schermo la storia di Frankie Valli, il regista non aveva ancora visto John Lloyd Young, Erich Bergen, e Michael Lomenda calcare le scene di Broadway nel musical omonimo da cui trarrà spunto. Nota la sua passione per la musica, subito rimane colpito, in particolare, dal protagonista, che è simile nelle fattezze fisiche (non avrebbe dovuto superare il metro e sessantacinque) e di origini siciliane proprio come il vero Francesco Stephen Castelluccio, che tra l'altro senza remore ha scelto di co-produrre la sua vita. Ebbene ci vorrà poco per innamorarsi di quell'epoca allo stesso modo dei nostri genitori o dei nostri nonni e per abituarsi al falsetto nasale di Valli, melenso e fastidioso quanto angelico e soave. Dal pop melodico ad un soft rock, dall’unione indissolubile dei componenti alla carriera da solista per Valli, si ripercorrono le quattro stagioni di un gruppo che si ritrovò a scegliere il definitivo nome per la band in un parcheggio, sfruttando l’insegna di un hotel dopo una fallimentare esibizione in un bowling club. Frankie Valli (con la I finale e non con la Y perché così faceva più italiano), Tommy De Vito, Nick Massi e l’ultimo arrivato Bob Gaudio, ci appaiono come vecchi amici di quartiere, che passano dal canto liberatorio giovanile sotto un lampione a vendere milioni di dischi insieme, scampando al triste destino di rimanere impigliati in un circolo malavitoso di quartiere. Il team creativo dietro la macchina da presa è stato guidato dal direttore della fotografia, il candidato all’ Oscar Tom Stern e dallo scenografo James J. Murakami, entrambi già fidati collaboratori di Clint per Changeling. Scenografie e costumi sono perfetti. Un po’ fastidiosa a mio avviso, la trovata di far parlare ogni componente a più riprese nella storia direttamente in camera, e lasciando ad ognuno il compito di raccontare gli snodi più significativi secondo punti di vista diversi: escamotage tecnico più o meno funzionale alla ripresa, ma non apprezzo tutte queste voci fuori campo che parlano con la telecamera, mi pare si perda il filo conduttore. E poi forse anche questo film andrebbe visto in lingua originale, perché il doppiaggio dall’accento italo americano ha sempre quel non so che di artefatto e forzato, che toglie un po’ di intensità all’interpretazione. Ciò nonostante, il piede si muove al ritmo delle loro canzoni e dei loro testi, la recitazione di John Lloyd Young (che interpreta Frankie Valli) è fisicamente splendida con quegli occhi nascosti che riescono però a penetrare nello spettatore, un Christopher Walken perfetto nella parte del boss mafioso ed un Erich Bergen credibile in ogni variazione di costume. Per la prima volta una storia tutta al maschile in cui le figure femminili sono in perenne secondo piano, e la cui assenza è forse giustificata dagli anni in cui si svolge il film, ma che generano una mancanza che si sente. Tolte queste piccole e accettabili pecche, Jersey Boys" non è solo un film sulla musica, ma la storia di una fratellanza che non si può sciogliere: un irrefrenabile tuffo nel passato che si conclude con un raduno finale danzante (forse anche un po’ esagerato e autocompiaciuto) che ci concede gli ultimi primi piani dei quattro protagonisti che intonano dopo tanti anni, i loro successi. Si esce dalla sala canticchiando “Can’t take my eyes off you” e con l’idea di andare a comprare subito la colonna sonora.

martedì 1 luglio 2014

LE WEEK-END

Alcune volte mi sfuggono i meccanismi cinematografici, per cui la maggior parte dei critici valutano con apprezzamento certe pellicole che io trovo di una noia mortale e insalvabili. Basta che il regista sia quello di Notting Hill, che i protagonisti non siano bellocci e giovani ma due insegnanti in pensione, e che i due attori abbiano una provenienza teatrale (senza contare lo sfondo di Parigi poi) che tutti a gridare alla commedia di spessore. Questa commedia ha tutto tranne che dell’aggettivo brillante: è rigida e claustrofobica. Lei è tremenda: eppure dovrebbe ringraziare il cielo per avere un marito in discreta salute che le trova ancora fisicamente attraente e con cui riesce a condividere momenti divertenti, invece è più fredda di un iceberg. I due attori sono senz’altro credibili nel descrivere le nevrosi di una coppia che resiste da trenta anni alle intemperie del tempo, ma non particolarmente simpatici, a tratti odiosi oserei. E dire che non mi sconvolge l’idea di scappare da un ristorante troppo caro senza pagare il conto o voler rivivere un bel momento celebrando i 30 anni di matrimonio, è solo che sono terribilmente patetici nella loro eterna lotta per la conquista della serenità. Una buona terapia di coppia fa miracoli ed è quasi meglio di tanti escamotage messi lì in maniera goffa e improbabile. Una nota di merito a Jeff Glodblum, deliziosamente insopportabile nella parte del rampollo del vecchio maestro che ha avuto successo. Meglio evitare Rue de Rivoli la prossima volta che passate per Parigi, o potreste incontrarlo e vi sentirete dei falliti. Insomma forse sono io ad essere lontana da certi nevrosi, ma non mi ha convinto, soprattutto in seconda serata. Una buona terapia contro l’insonnia.

LA VOCE UMANA

Una leggenda. Due Oscar, un Golden Globe, un Leone d’oro, la Coppa Volpi, una Palma d’oro a Cannes, un BAFTA, sei David di Donatello e due Nastri d’argento. Tanto ha vinto nella sua lunga carriera d’attrice Sophia Loren, tornata in questi giorni sul set, a 79 anni, grazie all’adorato figlio Edoardo Ponti, che l’aveva già diretta nel lontano 2002, nel tutt’altro che esaltante Cuori estranei. Direttamente da Napoli, tra Palazzo Reale, i vicoli del Pallonetto di Santa Lucia, lo storico rione Sanità, il Belvedere Sant’Antonio e Posillipo, Sophia si è prestata alla macchina da presa per un mediometraggio intitolato «Voci umane», volutamente ispirato a quel ‘La Voce Umana‘ dello scrittore francese Jean Cocteau, il cui celebre monologo divenne cinema con l’Amore di Roberto Rossellini, trascinato da una magnifica Anna Magnani. Lo scrittore Erri De Luca si è occupato dello script, per un adattamento volutamente in dialetto napoletano e in grado di stupire, soprattutto nel finale, tanto da portare la città di Napoli nella storia. Al figlio ha regalato un'interpretazione che per lei era una sfida, "è un'attrice istintiva, non prova, qui per sei settimane, come una pièce teatrale, ha preparato la parte. Per lei era veramente un obiettivo", dice Edoardo. Quel monologo della donna abbandonata dall'amante, che spera di riconquistarlo ma poi si dispera quando capisce che è sconfitta, "dall'inizio della carriera era un sogno, l'avevo visto con la Magnani, mi ero detta che un giorno ci sarei riuscita anche io. Un monologo bellissimo, una meta per tante attrici, certo la Magnani era la Magnani, un'attrice straordinaria, di temperamento, sensibilità e coraggio fuori dal comune. Ora ce l'ho fatta anche io".