mercoledì 2 marzo 2016

ATTUALMENTE AL CINEMA.... MAD MAX FURY ROAD, LA CORRISPONDENZA, THE DANISH GIRL, THE REVENANT, PERFETTI SCONOSCIUTI

Classifica degli ultimi film visti al cinema, in base al mio ordine di gradimento.

MAD MAX FURY ROAD
Una bella sorpresa: vado al cinema per vedere altro ma (per fortuna) sono finiti i posti. E scopro che questo film è di nuovo nelle sale perché ha ricevuto ben 10 nomination agli Oscar 2016. 
Il quarto capitolo della saga "Mad Max" di George Miller non è un remake ma un reboot (ossia un rifacimento), e dunque una rivisitazione della celebre saga sci-fi di culto ambientata in un devastato futuro post-apocalittico e, a mio avviso uno dei migliori film d’azione degli ultimi anni. Tralasciando la ‘figaggine’ (passatemi il termine) dei due protagonisti: un Tom Hardy super sexy e tenebroso, e una “Furiosa” Charlize Theron sempre assai lontana dal diventare brutta (anche senza un braccio e con la faccia ammaccata), Mad Max ti lascia col fiato corto.
Lunghi inseguimenti mozzafiato a bordo di auto, moto e cisterne modificate in mezzo alle dune e alle tempeste della Namibia, personaggi pazzi e mostruosi che al solo ricordo c’è da non dormire la notte, morti truculente ed esplosioni. Selvaggio, spietato, ironico a tratti, assordante, oltre alla spettacolarità delle scene d’azione, da risalto e importanza ai ruoli femminili: le donne hanno un ruolo primario e rappresentano la via di salvezza. Da non perdere, anche per chi non ha visto i precedenti.

LA CORRISPONDENZA
Fotografia di Fabio Zamarion ricca di suggestioni e colonna sonora affidata ad Ennio Morricone, atmosfere metalliche e stellari, sono la punta di diamante dell’ultima fatica di Tornatore, le cui immagini rimarranno ben impresse nella vostra memoria. Un po’ meno forse una storia che appare improbabile e un film che offre (e soffre) una trama a tratti troppo barocca. 
Una caccia al tesoro emotiva che ogni giorno completa, come in un puzzle, un progetto degno di un genio della scienza e della comunicazione. Bisognerà capire se si ci troviamo davanti ad un amore che vuole sfidare l’eternità o solo ad un macabro ‘piano marketing’ di un cinico narcisista che desidera mantenere il suo potere oltre la morte. 
Un legame sentimentale molto forte, che assomiglia molto di più a una manipolazione affettiva, quello tra il professore di astrofisica Ed e l’incantevole studentessa “Amy-Kamikaze” (soprannominata così per le sue passioni a dir poco rischiose): una ‘corrispondenza d’amore’ che sfiderà la distanza e poi anche l’aldilà. Tornatore predispone, illumina e allestisce ogni scena, e ha sempre il merito di ingenerare nel pubblico quell’alone di mistero che è il fondamento di ogni sua pellicola, e che ci fa sempre sperare in chissà quale avvincente epilogo (e invece no). Esteticamente perfetto: come la protagonista Olga Kurylenko, che stordirebbe chiunque con la sua bellezza e con la forza della sua gioventù. Figuriamoci un affaticato ma sempre intenso Jeremy Irons.

THE DANISH GIRL
Eddie Redmayne può fare qualsiasi cosa…anche essere perfettamente una donna. La dolcezza ed espressività del suo volto lo permettono. 
Questa volta però l’Oscar se lo prende di tutto rispetto Alicia Vikander, miglior attrice non protagonista. Strameritato. E’ lei a sopportare tutto il calvario di un marito che di maschile ha solo il nome, a camminare al suo fianco prima in veste di compagna e poi di migliore amica. Fino alla fine. Adoro le storie vere, quelle che in effetti non ti risparmiano per niente la realtà per quella che è. Brutale e scioccante. Ecco così che ne esce un film dalle atmosfere  cupe, inevitabilmente triste. Ti sbatte in faccia la vastità e disperazione di un disagio come quello di non riconoscersi nell’abito che indossiamo, in un’epoca in cui sentirsi diversi significava essere considerati malati di mente. La ricerca disperata di se stessi, contro ogni forma di convenzione, al rischio della vita stessa. Terribilmente realistico, ma al netto della sofferenza, non risulta troppo commovente. Che strano. 
Forse il regista si è talmente impegnato ad evitare scene forti o scabrose e a mantenere una certa dose di garbo, che ci ha risparmiato ahimè anche un bel po’ di pathos…ma gli attori bravi e giovani salvano le sceneggiature deboli.

THE REVENANT
Se questa volta non avessero dato l’Oscar a Di Caprio, credo che l’avremmo trovato a vendere hot dog sulla spiaggia. Dopo tutta questa faticaccia al “trucco e parrucco”, al freddo e al gelo, e anche al buio (le riprese sono state girate solo con luce naturale), credo che un riconoscimento fosse doveroso a questo punto della sua carriera.
Film lento, lungo, tre parole in tutto. E non si capisce bene in che genere siamo incappati: un western, un biopic, o forse una nuova saga di un supereroe nel selvaggio west (ogni tanto spuntano gli indiani). Ritroviamo anche il sexy Tom Hardy irriconoscibile in versione cacciatore, con una interpretazione forse più convincente ed empatica del sofferente (highlander) Leo. La natura è la vera protagonista, la fotografia di Emmanuel Lubezki “spacca”, nel senso che esce dallo schermo e ti fa sentire freddo, paura, angoscia. La scena dell’aggressione dell’Orso è fatta benissimo. Inarritu è un esteta, ha una regia che rasenta la perfezione maniacale, ma il tutto risulta comunque un po’ asettico. Premiati tutti meno che il film (migliore attore, regia, fotografia). Mi sembra giusto. Da vedere non più tardi delle 20 mi raccomando.

JOY
Premesso che di mocio non ne capisco granché, ergo devo esimermi da un’eventuale empatia da casalinga disperata, mi piacciono questi film americani dove c’è sempre il lieto fine e tutti possono diventare quello che vogliono. Stesso regista de Il lato Positivo infatti, stessa protagonista. Stesso happy ending assolutamente irrealistico (ma si sa agli americani piace strafare). La storia che ci racconta questa volta (anche se romanzata al 50%), è quella di Joy Mangano, regina delle televendite e inventrice del Miracle Mop, la magica scopa per pulire i pavimenti. E se questo non ci interessa tanto, la sua bizzarra famiglia e la ricostruzione perfetta di quel periodo, nell'atmosfera anni '80 della provincia depressa e dello strabiliante mondo della TV commerciale, rendono il film decisamente ben confezionato, visto che siamo in tema di vendite di prodotti. Se non altro perché c’è una celebrazione corale della donna: a parte l’ormai consacrata Jennifer Lawrence, troviamo l'inossidabile Diane Lane (magnifica nel ruolo della nonna Mimi), l’italiana (?) Isabella Rossellini e Virginia  Madsen. Evviva le donne, che tutto possono, anche con una scopa in mano.


PERFETTI SCONOSCIUTI
Campione d’incassi dopo Checco Zalone. Eccoci qua. “Perfetti Italiani direi”. Commediola brillante, simpatica, qualche buona battuta, risate (molto) amare. Un cast di tutto rispetto che tiene alta l’attenzione. Ah c’è anche lo sliding doors
Probabilmente il segreto di tanto successo è che si sono tutti immedesimati nei personaggi e l’effetto catartico ha fatto una scia di proseliti bisognosi di fare outing…o semplicemente era tanto tempo che non si vedeva una bella commedia all'italiana, con qualche riflessione degna di una buona sceneggiatura. In ogni caso i film che si svolgono tutto il tempo seduti a tavola, mi sanno tanto di terapia di gruppo e allora non lo so, mi annoio. Tutto quello c’è da sapere nella scatola nera dello Smartphone è assolutamente attuale, ma ahimè poco originale. Potete tranquillamente aspettare di vederlo in TV. Se poi volete cogliere l’occasione per rivelare la vostra doppia vita, allora è un altro discorso.


martedì 19 gennaio 2016

QUO VADO

Sono andata anche io a vedere Zalone. Ebbene si. Non perché avessi una pistola puntata alle tempie, né perché mi pagavano per dire la mia, ma volevo dirla lo stesso. In fondo il successo alla fine si basa anche sul tam tam. Vado perché sono curiosa. Ed in ogni caso per poter dire che un piatto di spaghetti è scotto o al dente, lo devi comunque assaggiare. 
In realtà non avendo mai visto un suo film, la mia sembrava una presa di posizione statica e prevenuta, dovuta al fatto che la sua faccia ha una mimica che mi stanca subito. O forse la sua comicità è lontana anni luce dalle commedie che ho amato di più, che fanno parte di una tradizione romana per me inimitabile: quella di Carlo Verdone. Un sacco bello. Bianco Rosso e Verdone. Borotalco. Acqua e Sapone. Troppo Forte. Compagni di scuola. Viaggi di nozze. E molti altri che hanno segnato un’epoca e identificato uno stile nella commedia brillante all’italiana. Per me non c’è storia. Poi possiamo anche parlarne.
Devo essere sincera: il film è divertente, non è in alcun modo assimilabile a un Cine panettone (tanto per citare un genere popolare e di successo) – né si deve pensare che sia per gente incolta come vorrebbero far pensare i detrattori. La sceneggiatura si regge su dialoghi e tempi comici non banali e su una maschera che, pur non piacendomi, possiede obiettivamente una sua originalità e anche una forza espressiva spumeggiante. Il posto fisso poi. Fare un film sull’italiano medio, l’impiego pubblico e la foto di una stagnante politica ministeriale che non ci tiene a cambiare le cose e le persone. Si può essere più furbi? Direi che un merito va riconosciuto solo per avere riabilitato ciò che di più banale e consacrato abbiamo come materia prima, in una rinascita civile ed edulcorata anche dell’uomo più mediocre.
Tralasciando inopportune (e ambiziose) analisi sociologiche che lo vorrebbero come un fenomeno di costume, questo film racchiude ciò che per molti è il vero senso del cinema: ossia l’intrattenimento puro, inteso come passare del tempo facendosi quattro risate. Sacrosanto direi. Certo per chi ne capisce un po’ di più e fa del cinema il suo pane quotidiano, la risata va un po’ stretta se non si può apprezzare altro. Potrei segnalare che l’impressione è che sia una pellicola che va di corsa come un video clip, le cui scene in alcuni casi sembrano volutamente abbozzate con un ritmo sincopato che cela una trama un po’ debole, ma mi fermo qui, perché poi sembrerebbe che ci sia da puntualizzare qualcosa di tecnico, che invece forse ha poco valore dal punto di vista del montaggio e tutto sommato non interessa a nessuno. 
Terminiamo qui tutta questa disputa intorno all’enorme (e inspiegabile?) successo al botteghino di Quo Vado, segnalando che spesso trascuriamo il fatto che il successo a volte sia una mera operazione commerciale: quando un film incassa così tanto, è anche perché dietro c’è anche un’iniziativa imprenditoriale di tutto rispetto, e perché non tutti stanno lì ad aspettare il capolavoro. Noi siamo l’Italia di Checco Zalone, che ci piaccia o no, quindi perché la gente non dovrebbe andare a vederlo?
Zalone è un fenomeno di questi tempi si. Una macchina da guerra per risate in tempi di spending review. Ma lui le olive greche se le sogna.. e pure Lucio Dalla. 

venerdì 8 gennaio 2016

MACBETH


Se non fosse per l’intensa espressività di Michael Fassbender, che comunica con il solo sguardo la metamorfosi del suo personaggio (e che con un bagno nelle acque torbide e gelate della Scozia  vale da solo il prezzo del biglietto), sarebbe difficile digerire un tale “polpettone”: un ibrido poco convincente a metà strada tra 300 e Braveheart.
Deduco sia alquanto complicato ridurre la trama di uno dei capolavori di Shakespeare, e il regista Justin Kurzel cerca di riportare fedelmente sul grande schermo l'intera storia, conservando nella loro interezza (e complessità linguistica) i dialoghi shakespeariani: ma che fatica seguire! 
Purtroppo questo contributo si limita alla messinscena della tragedia shakespeariana, in una Scozia selvaggia e arida, che sembra l’anticamera dell’inferno: per il resto l'adattamento è talmente fedele e devoto al testo da risultare convenzionale e poco originale e, nonostante sia viva e fiammeggiante un’estetica impeccabile, questa di certo non semplifica la complessità dialogica dell’opera teatrale.
Non mi soffermerò particolarmente sulla trama, che vi consiglio di approfondire se avete intenzione di vederlo (per amanti di Shakespeare s’intende), ma è interessante invece cogliere l’aspetto umano (o “disumano” sarebbe il caso di dire) del personaggio Macbeth che, da valoroso condottiero cede alla propria sete di potere per seguire la profezia che lo ha indicato come il futuro re di Scozia, fomentato da una moglie ambiziosa e senza scrupoli che lo porterà ad impazzire e a trasformarsi in un mostro assettato di sangue.
Un’ ascesa al trono che peserà non poco sulle coscienze dei due protagonisti, con l’uccisione del re in carica, e che invocherà una serie di ulteriori delitti sempre più efferati, poiché l’uomo, divorato da dubbi e paure (e tormentato da visioni inquietanti) vedrà  ostacoli in chiunque e cercherà di eliminarli uno ad uno.
Magnetica l’interpretazione di Marion Cotillard, nella parte di Lady Macbeth, moglie dalla maternità frustrata, il cui volto apparentemente angelico cela un'anima corrotta e contaminata dal male, e il cui obiettivo primario è manovrare il marito come una marionetta.
Dal punto di vista della tecnica e dell’estetica, l'utilizzo della slow motion nelle sequenze di battaglia, la desaturazione dei colori, la studiata lentezza dei movimenti contribuiscono in misura essenziale a rafforzare il sanguinario percorso di Macbeth e restituiscono sicuramente una sorta di dignità all’opera; ma l’azione, tra studiati rallenty e virtuosismi scenici, non concede spazio alle emozioni che risultano addomesticate in una sceneggiatura troppo rigida con una ridondanza verbale eccessiva, impantanandola in un prodotto troppo ‘formale’.
Il senso di inevitabile e tragica astrazione dalla realtà, l'ossessione per il potere che si manifesta in sete di distruzione, il Castello che sembra evocare una prigione dell’anima, la foresta di Birnam, che nel finale 'avanza' contro Macbeth: sono tutti segnali che la figura umana si è dissolta definitivamente, mentre si spalanca un inferno di fuoco e di sangue, ma tolto questo aspetto “fantasy” rimane ben poco. E nell'epilogo, durante il duello conclusivo fra Macbeth e il suo giustiziere Macduff, i filtri rossi della fotografia imprimono il carattere di un'opera coraggiosamente visionaria ma troppo essenziale. Scarno. 

martedì 5 gennaio 2016

CAROL



Seduta da sola in Auditorium per l’anteprima mondiale alla Festa del Cinema di Roma, ho avuto la fortuna di vedere Carol in lingua originale e di apprezzarlo insieme a tante persone che, come me, non finivano di applaudire alla fine della proiezione. Sono quelle storie che ti rimangono appiccicate addosso anche quando in sala si spengono le luci.
Pensavo di trovarmi davanti all'ennesimo film sull'amore saffico, sulla scia di una tendenza cinematografica ormai più o meno consolidata -  da La vita di Adele a Freeheld -  ma Carol è molto di più. E stupisce in che modo delicato il regista Todd Haynes abbia saputo regalarci uno spaccato femminile impeccabile, che non cerca mai di gridare allo scandalo né tanto meno di raccontare dispute civili o politiche, perché le conquiste di cui parla vanno bel oltre l’ipocrisia dell’epoca e hanno a che fare con la dignità, il coraggio e la forza che solo certe donne meravigliose possiedono.
Acclamato all’ultimo Festival di Cannes dove ha meritato il premio per l’interpretazione di Rooney Mara, il film esce oggi in Italia, proprio alla vigilia dell’attribuzione dei Golden Globes ai quali concorre con cinque nomination ed è ispirato al romanzo The Price of Salt di Patricia Highsmith, pubblicato nel 1952 e naturalmente censurato: un testo che mise a dura prova il perbenismo borghese di quel periodo.
L’incontro fra le due donne è indimenticabile, a pochi giorni dal Natale del 1952, intimo e delicato come quei rari momenti nella vita in cui ci si riconosce negli occhi dell'altro ed il tempo sembra fermarsi: entrambi gli sguardi delle protagoniste si soffermano su un trenino giocattolo che passa oltre le montagne di cartone, in un grande magazzino di una New York fumosa e un po' rétro. Da una parte la sofisticata e apparentemente algida Carol, madre sull'orlo del divorzio, in cerca di un regalo per sua figlia (sposata con un uomo che evidentemente non accetta la sua omosessualità), e dall’altra Therese, giovane e fragile commessa indecisa persino su cosa ordinare a pranzo.
Si osservano, si scrutano, e il regista non ci risparmia le continue riprese sui loro sguardi, ed è proprio appoggiandosi sui loro occhi che percepiamo l'infelicità sorda di Carol, una donna matura ma malinconica, e l'irrequietezza acerba di Therese, unite da un’inconsapevole e coraggiosa sfacciataggine che le farà osare spingendosi ben oltre l'amicizia. E Haynes non smette di mostrarci l’inquietudine e il sapore di questa scoperta, che passa tra le corse in auto e la fuga negli hotel, in un viaggio che ha ben poco di avventuroso e romantico se non il tentativo maldestro di vivere disperatamente l'amore in tutte le sue sfaccettature. E sembra quasi che l'aspetto rilevante non sia la passione per un’altra donna, quanto piuttosto rafforzare la propria dimensione, e portare avanti la lotta che Carol ingaggia con sé stessa, per non perdere tutto pur cercando di restare fedele alla sua audace natura anticonformista.
Volutamente claustrofobico, nel film ciascun personaggio è segnato dal luogo in cui è confinato, Carol nella sua grande villa di un sobborgo benestante, Therese nel suo piccolo appartamento in città, come se le protagoniste non avessero altra vita che quella concessa dal luogo in cui vivono.
Eppure la ricerca spasmodica di un’identità soffocata, l’inesauribile carica emotiva di due donne così diverse eppure così vicine, le porterà ben più lontano di quello che avrebbero sperato, superando ostacoli che sembravano insormontabili e inseguendo passioni e ambizioni che le condurranno su un cammino che  le vedrà protagoniste di un nuovo destino. Troneggia un’intensa e sensuale Cate Blanchett, irrequieta come le sigarette che fuma, in un film elegante e raffinato che trasuda magia e sentimento. Viscerale.