mercoledì 28 marzo 2018

OLTRE LA NOTTE



…Una pioggia incessante bagna le strade di una tragica notte ad Amburgo e riga il volto pieno di lacrime di una donna che ha appena assistito alla tragedia più atroce: la morte del figlio e del marito (di origine turca), esplosi nell’ufficio dell’uomo a causa di una bomba. Inizia così l’ultima pellicola firmata da Fatih Akin (non a caso regista tedesco di origini turche) e da quel momento in poi non ci verrà risparmiato nulla del lacerante percorso della protagonista: dall’ingiustizia subita alla giustizia negata, passando per l'inesorabile desiderio di morire e il più vile odio razziale, tutti fardelli che regge sulle spalle una ‘gigantesca’ Diane Kruger, meritandosi a pieno titolo il premio come miglior attrice al Festival di Cannes.

“Katja”, rimane sola a confrontarsi con la giustizia, con uno Stato che non esiste e l'idea della vendetta in mano, che è l’unica cosa che le resta per sopravvivere. La sua non è una storia vera, ma il regista ha fatto riferimento ai brutali fatti avvenuti tra il 2000 e il 2007 in Germania, in cui alcune persone  di origine non tedesca, furono vittime di vere e proprie esecuzioni, per mano di attentatori di estrema destra. Nonostante questo richiamo però, la pellicola non vuole indagare l’aspetto politico o legale della vicenda (sebbene in parte ci si dedichi), né il tema dei pregiudizi morali e culturali, seppur evidentemente presenti nel dipanarsi dei fatti, piuttosto ci fa entrare nella dimensione privata di una famiglia distrutta, che aveva tutte le carte in regola per vivere un presente tranquillo e non dava fastidio a nessuno. Risulta ancora più ingiusto e insensato capire le ragioni di un simile atto, e il senso di rabbia e la frustrazione che pervadono in maniera invasiva tutti e 3 i ‘capitoli’ del film “Famiglia-Giustizia-Mare”, ti rendono partecipe dell’atroce dramma di questa donna, che si tatua il dolore nel corpo e si trascina un giorno dopo l’altro invocando un’acre vendetta, come l’eroina noir di un revenge movie. Il modo in cui terminerà il suo calvario, fa pensare a quanto siamo tutti potenziali giustizieri, se colpiti violentemente nel profondo degli affetti.

Katja è una donna che non ha più scelta: non ha soluzioni né una vita da vivere, non può far altro che accoccolarsi davanti a un mare di ricordi e cercare di affogare il proprio dispiacere in un modo che solo lei può immaginare. Non si può rinunciare all’autenticità di una vita vissuta nell’amore se non con l’atto più terribile (e temibile), ma che in fondo gli perdoniamo perché quella famiglia non c’era già più, distrutta da un odio razziale mediocre e cieco.

mercoledì 2 marzo 2016

ATTUALMENTE AL CINEMA.... MAD MAX FURY ROAD, LA CORRISPONDENZA, THE DANISH GIRL, THE REVENANT, PERFETTI SCONOSCIUTI

Classifica degli ultimi film visti al cinema, in base al mio ordine di gradimento.

MAD MAX FURY ROAD
Una bella sorpresa: vado al cinema per vedere altro ma (per fortuna) sono finiti i posti. E scopro che questo film è di nuovo nelle sale perché ha ricevuto ben 10 nomination agli Oscar 2016. 
Il quarto capitolo della saga "Mad Max" di George Miller non è un remake ma un reboot (ossia un rifacimento), e dunque una rivisitazione della celebre saga sci-fi di culto ambientata in un devastato futuro post-apocalittico e, a mio avviso uno dei migliori film d’azione degli ultimi anni. Tralasciando la ‘figaggine’ (passatemi il termine) dei due protagonisti: un Tom Hardy super sexy e tenebroso, e una “Furiosa” Charlize Theron sempre assai lontana dal diventare brutta (anche senza un braccio e con la faccia ammaccata), Mad Max ti lascia col fiato corto.
Lunghi inseguimenti mozzafiato a bordo di auto, moto e cisterne modificate in mezzo alle dune e alle tempeste della Namibia, personaggi pazzi e mostruosi che al solo ricordo c’è da non dormire la notte, morti truculente ed esplosioni. Selvaggio, spietato, ironico a tratti, assordante, oltre alla spettacolarità delle scene d’azione, da risalto e importanza ai ruoli femminili: le donne hanno un ruolo primario e rappresentano la via di salvezza. Da non perdere, anche per chi non ha visto i precedenti.

LA CORRISPONDENZA
Fotografia di Fabio Zamarion ricca di suggestioni e colonna sonora affidata ad Ennio Morricone, atmosfere metalliche e stellari, sono la punta di diamante dell’ultima fatica di Tornatore, le cui immagini rimarranno ben impresse nella vostra memoria. Un po’ meno forse una storia che appare improbabile e un film che offre (e soffre) una trama a tratti troppo barocca. 
Una caccia al tesoro emotiva che ogni giorno completa, come in un puzzle, un progetto degno di un genio della scienza e della comunicazione. Bisognerà capire se si ci troviamo davanti ad un amore che vuole sfidare l’eternità o solo ad un macabro ‘piano marketing’ di un cinico narcisista che desidera mantenere il suo potere oltre la morte. 
Un legame sentimentale molto forte, che assomiglia molto di più a una manipolazione affettiva, quello tra il professore di astrofisica Ed e l’incantevole studentessa “Amy-Kamikaze” (soprannominata così per le sue passioni a dir poco rischiose): una ‘corrispondenza d’amore’ che sfiderà la distanza e poi anche l’aldilà. Tornatore predispone, illumina e allestisce ogni scena, e ha sempre il merito di ingenerare nel pubblico quell’alone di mistero che è il fondamento di ogni sua pellicola, e che ci fa sempre sperare in chissà quale avvincente epilogo (e invece no). Esteticamente perfetto: come la protagonista Olga Kurylenko, che stordirebbe chiunque con la sua bellezza e con la forza della sua gioventù. Figuriamoci un affaticato ma sempre intenso Jeremy Irons.

THE DANISH GIRL
Eddie Redmayne può fare qualsiasi cosa…anche essere perfettamente una donna. La dolcezza ed espressività del suo volto lo permettono. 
Questa volta però l’Oscar se lo prende di tutto rispetto Alicia Vikander, miglior attrice non protagonista. Strameritato. E’ lei a sopportare tutto il calvario di un marito che di maschile ha solo il nome, a camminare al suo fianco prima in veste di compagna e poi di migliore amica. Fino alla fine. Adoro le storie vere, quelle che in effetti non ti risparmiano per niente la realtà per quella che è. Brutale e scioccante. Ecco così che ne esce un film dalle atmosfere  cupe, inevitabilmente triste. Ti sbatte in faccia la vastità e disperazione di un disagio come quello di non riconoscersi nell’abito che indossiamo, in un’epoca in cui sentirsi diversi significava essere considerati malati di mente. La ricerca disperata di se stessi, contro ogni forma di convenzione, al rischio della vita stessa. Terribilmente realistico, ma al netto della sofferenza, non risulta troppo commovente. Che strano. 
Forse il regista si è talmente impegnato ad evitare scene forti o scabrose e a mantenere una certa dose di garbo, che ci ha risparmiato ahimè anche un bel po’ di pathos…ma gli attori bravi e giovani salvano le sceneggiature deboli.

THE REVENANT
Se questa volta non avessero dato l’Oscar a Di Caprio, credo che l’avremmo trovato a vendere hot dog sulla spiaggia. Dopo tutta questa faticaccia al “trucco e parrucco”, al freddo e al gelo, e anche al buio (le riprese sono state girate solo con luce naturale), credo che un riconoscimento fosse doveroso a questo punto della sua carriera.
Film lento, lungo, tre parole in tutto. E non si capisce bene in che genere siamo incappati: un western, un biopic, o forse una nuova saga di un supereroe nel selvaggio west (ogni tanto spuntano gli indiani). Ritroviamo anche il sexy Tom Hardy irriconoscibile in versione cacciatore, con una interpretazione forse più convincente ed empatica del sofferente (highlander) Leo. La natura è la vera protagonista, la fotografia di Emmanuel Lubezki “spacca”, nel senso che esce dallo schermo e ti fa sentire freddo, paura, angoscia. La scena dell’aggressione dell’Orso è fatta benissimo. Inarritu è un esteta, ha una regia che rasenta la perfezione maniacale, ma il tutto risulta comunque un po’ asettico. Premiati tutti meno che il film (migliore attore, regia, fotografia). Mi sembra giusto. Da vedere non più tardi delle 20 mi raccomando.

JOY
Premesso che di mocio non ne capisco granché, ergo devo esimermi da un’eventuale empatia da casalinga disperata, mi piacciono questi film americani dove c’è sempre il lieto fine e tutti possono diventare quello che vogliono. Stesso regista de Il lato Positivo infatti, stessa protagonista. Stesso happy ending assolutamente irrealistico (ma si sa agli americani piace strafare). La storia che ci racconta questa volta (anche se romanzata al 50%), è quella di Joy Mangano, regina delle televendite e inventrice del Miracle Mop, la magica scopa per pulire i pavimenti. E se questo non ci interessa tanto, la sua bizzarra famiglia e la ricostruzione perfetta di quel periodo, nell'atmosfera anni '80 della provincia depressa e dello strabiliante mondo della TV commerciale, rendono il film decisamente ben confezionato, visto che siamo in tema di vendite di prodotti. Se non altro perché c’è una celebrazione corale della donna: a parte l’ormai consacrata Jennifer Lawrence, troviamo l'inossidabile Diane Lane (magnifica nel ruolo della nonna Mimi), l’italiana (?) Isabella Rossellini e Virginia  Madsen. Evviva le donne, che tutto possono, anche con una scopa in mano.


PERFETTI SCONOSCIUTI
Campione d’incassi dopo Checco Zalone. Eccoci qua. “Perfetti Italiani direi”. Commediola brillante, simpatica, qualche buona battuta, risate (molto) amare. Un cast di tutto rispetto che tiene alta l’attenzione. Ah c’è anche lo sliding doors
Probabilmente il segreto di tanto successo è che si sono tutti immedesimati nei personaggi e l’effetto catartico ha fatto una scia di proseliti bisognosi di fare outing…o semplicemente era tanto tempo che non si vedeva una bella commedia all'italiana, con qualche riflessione degna di una buona sceneggiatura. In ogni caso i film che si svolgono tutto il tempo seduti a tavola, mi sanno tanto di terapia di gruppo e allora non lo so, mi annoio. Tutto quello c’è da sapere nella scatola nera dello Smartphone è assolutamente attuale, ma ahimè poco originale. Potete tranquillamente aspettare di vederlo in TV. Se poi volete cogliere l’occasione per rivelare la vostra doppia vita, allora è un altro discorso.


martedì 19 gennaio 2016

QUO VADO

Sono andata anche io a vedere Zalone. Ebbene si. Non perché avessi una pistola puntata alle tempie, né perché mi pagavano per dire la mia, ma volevo dirla lo stesso. In fondo il successo alla fine si basa anche sul tam tam. Vado perché sono curiosa. Ed in ogni caso per poter dire che un piatto di spaghetti è scotto o al dente, lo devi comunque assaggiare. 
In realtà non avendo mai visto un suo film, la mia sembrava una presa di posizione statica e prevenuta, dovuta al fatto che la sua faccia ha una mimica che mi stanca subito. O forse la sua comicità è lontana anni luce dalle commedie che ho amato di più, che fanno parte di una tradizione romana per me inimitabile: quella di Carlo Verdone. Un sacco bello. Bianco Rosso e Verdone. Borotalco. Acqua e Sapone. Troppo Forte. Compagni di scuola. Viaggi di nozze. E molti altri che hanno segnato un’epoca e identificato uno stile nella commedia brillante all’italiana. Per me non c’è storia. Poi possiamo anche parlarne.
Devo essere sincera: il film è divertente, non è in alcun modo assimilabile a un Cine panettone (tanto per citare un genere popolare e di successo) – né si deve pensare che sia per gente incolta come vorrebbero far pensare i detrattori. La sceneggiatura si regge su dialoghi e tempi comici non banali e su una maschera che, pur non piacendomi, possiede obiettivamente una sua originalità e anche una forza espressiva spumeggiante. Il posto fisso poi. Fare un film sull’italiano medio, l’impiego pubblico e la foto di una stagnante politica ministeriale che non ci tiene a cambiare le cose e le persone. Si può essere più furbi? Direi che un merito va riconosciuto solo per avere riabilitato ciò che di più banale e consacrato abbiamo come materia prima, in una rinascita civile ed edulcorata anche dell’uomo più mediocre.
Tralasciando inopportune (e ambiziose) analisi sociologiche che lo vorrebbero come un fenomeno di costume, questo film racchiude ciò che per molti è il vero senso del cinema: ossia l’intrattenimento puro, inteso come passare del tempo facendosi quattro risate. Sacrosanto direi. Certo per chi ne capisce un po’ di più e fa del cinema il suo pane quotidiano, la risata va un po’ stretta se non si può apprezzare altro. Potrei segnalare che l’impressione è che sia una pellicola che va di corsa come un video clip, le cui scene in alcuni casi sembrano volutamente abbozzate con un ritmo sincopato che cela una trama un po’ debole, ma mi fermo qui, perché poi sembrerebbe che ci sia da puntualizzare qualcosa di tecnico, che invece forse ha poco valore dal punto di vista del montaggio e tutto sommato non interessa a nessuno. 
Terminiamo qui tutta questa disputa intorno all’enorme (e inspiegabile?) successo al botteghino di Quo Vado, segnalando che spesso trascuriamo il fatto che il successo a volte sia una mera operazione commerciale: quando un film incassa così tanto, è anche perché dietro c’è anche un’iniziativa imprenditoriale di tutto rispetto, e perché non tutti stanno lì ad aspettare il capolavoro. Noi siamo l’Italia di Checco Zalone, che ci piaccia o no, quindi perché la gente non dovrebbe andare a vederlo?
Zalone è un fenomeno di questi tempi si. Una macchina da guerra per risate in tempi di spending review. Ma lui le olive greche se le sogna.. e pure Lucio Dalla. 

venerdì 8 gennaio 2016

MACBETH


Se non fosse per l’intensa espressività di Michael Fassbender, che comunica con il solo sguardo la metamorfosi del suo personaggio (e che con un bagno nelle acque torbide e gelate della Scozia  vale da solo il prezzo del biglietto), sarebbe difficile digerire un tale “polpettone”: un ibrido poco convincente a metà strada tra 300 e Braveheart.
Deduco sia alquanto complicato ridurre la trama di uno dei capolavori di Shakespeare, e il regista Justin Kurzel cerca di riportare fedelmente sul grande schermo l'intera storia, conservando nella loro interezza (e complessità linguistica) i dialoghi shakespeariani: ma che fatica seguire! 
Purtroppo questo contributo si limita alla messinscena della tragedia shakespeariana, in una Scozia selvaggia e arida, che sembra l’anticamera dell’inferno: per il resto l'adattamento è talmente fedele e devoto al testo da risultare convenzionale e poco originale e, nonostante sia viva e fiammeggiante un’estetica impeccabile, questa di certo non semplifica la complessità dialogica dell’opera teatrale.
Non mi soffermerò particolarmente sulla trama, che vi consiglio di approfondire se avete intenzione di vederlo (per amanti di Shakespeare s’intende), ma è interessante invece cogliere l’aspetto umano (o “disumano” sarebbe il caso di dire) del personaggio Macbeth che, da valoroso condottiero cede alla propria sete di potere per seguire la profezia che lo ha indicato come il futuro re di Scozia, fomentato da una moglie ambiziosa e senza scrupoli che lo porterà ad impazzire e a trasformarsi in un mostro assettato di sangue.
Un’ ascesa al trono che peserà non poco sulle coscienze dei due protagonisti, con l’uccisione del re in carica, e che invocherà una serie di ulteriori delitti sempre più efferati, poiché l’uomo, divorato da dubbi e paure (e tormentato da visioni inquietanti) vedrà  ostacoli in chiunque e cercherà di eliminarli uno ad uno.
Magnetica l’interpretazione di Marion Cotillard, nella parte di Lady Macbeth, moglie dalla maternità frustrata, il cui volto apparentemente angelico cela un'anima corrotta e contaminata dal male, e il cui obiettivo primario è manovrare il marito come una marionetta.
Dal punto di vista della tecnica e dell’estetica, l'utilizzo della slow motion nelle sequenze di battaglia, la desaturazione dei colori, la studiata lentezza dei movimenti contribuiscono in misura essenziale a rafforzare il sanguinario percorso di Macbeth e restituiscono sicuramente una sorta di dignità all’opera; ma l’azione, tra studiati rallenty e virtuosismi scenici, non concede spazio alle emozioni che risultano addomesticate in una sceneggiatura troppo rigida con una ridondanza verbale eccessiva, impantanandola in un prodotto troppo ‘formale’.
Il senso di inevitabile e tragica astrazione dalla realtà, l'ossessione per il potere che si manifesta in sete di distruzione, il Castello che sembra evocare una prigione dell’anima, la foresta di Birnam, che nel finale 'avanza' contro Macbeth: sono tutti segnali che la figura umana si è dissolta definitivamente, mentre si spalanca un inferno di fuoco e di sangue, ma tolto questo aspetto “fantasy” rimane ben poco. E nell'epilogo, durante il duello conclusivo fra Macbeth e il suo giustiziere Macduff, i filtri rossi della fotografia imprimono il carattere di un'opera coraggiosamente visionaria ma troppo essenziale. Scarno. 

martedì 5 gennaio 2016

CAROL



Seduta da sola in Auditorium per l’anteprima mondiale alla Festa del Cinema di Roma, ho avuto la fortuna di vedere Carol in lingua originale e di apprezzarlo insieme a tante persone che, come me, non finivano di applaudire alla fine della proiezione. Sono quelle storie che ti rimangono appiccicate addosso anche quando in sala si spengono le luci.
Pensavo di trovarmi davanti all'ennesimo film sull'amore saffico, sulla scia di una tendenza cinematografica ormai più o meno consolidata -  da La vita di Adele a Freeheld -  ma Carol è molto di più. E stupisce in che modo delicato il regista Todd Haynes abbia saputo regalarci uno spaccato femminile impeccabile, che non cerca mai di gridare allo scandalo né tanto meno di raccontare dispute civili o politiche, perché le conquiste di cui parla vanno bel oltre l’ipocrisia dell’epoca e hanno a che fare con la dignità, il coraggio e la forza che solo certe donne meravigliose possiedono.
Acclamato all’ultimo Festival di Cannes dove ha meritato il premio per l’interpretazione di Rooney Mara, il film esce oggi in Italia, proprio alla vigilia dell’attribuzione dei Golden Globes ai quali concorre con cinque nomination ed è ispirato al romanzo The Price of Salt di Patricia Highsmith, pubblicato nel 1952 e naturalmente censurato: un testo che mise a dura prova il perbenismo borghese di quel periodo.
L’incontro fra le due donne è indimenticabile, a pochi giorni dal Natale del 1952, intimo e delicato come quei rari momenti nella vita in cui ci si riconosce negli occhi dell'altro ed il tempo sembra fermarsi: entrambi gli sguardi delle protagoniste si soffermano su un trenino giocattolo che passa oltre le montagne di cartone, in un grande magazzino di una New York fumosa e un po' rétro. Da una parte la sofisticata e apparentemente algida Carol, madre sull'orlo del divorzio, in cerca di un regalo per sua figlia (sposata con un uomo che evidentemente non accetta la sua omosessualità), e dall’altra Therese, giovane e fragile commessa indecisa persino su cosa ordinare a pranzo.
Si osservano, si scrutano, e il regista non ci risparmia le continue riprese sui loro sguardi, ed è proprio appoggiandosi sui loro occhi che percepiamo l'infelicità sorda di Carol, una donna matura ma malinconica, e l'irrequietezza acerba di Therese, unite da un’inconsapevole e coraggiosa sfacciataggine che le farà osare spingendosi ben oltre l'amicizia. E Haynes non smette di mostrarci l’inquietudine e il sapore di questa scoperta, che passa tra le corse in auto e la fuga negli hotel, in un viaggio che ha ben poco di avventuroso e romantico se non il tentativo maldestro di vivere disperatamente l'amore in tutte le sue sfaccettature. E sembra quasi che l'aspetto rilevante non sia la passione per un’altra donna, quanto piuttosto rafforzare la propria dimensione, e portare avanti la lotta che Carol ingaggia con sé stessa, per non perdere tutto pur cercando di restare fedele alla sua audace natura anticonformista.
Volutamente claustrofobico, nel film ciascun personaggio è segnato dal luogo in cui è confinato, Carol nella sua grande villa di un sobborgo benestante, Therese nel suo piccolo appartamento in città, come se le protagoniste non avessero altra vita che quella concessa dal luogo in cui vivono.
Eppure la ricerca spasmodica di un’identità soffocata, l’inesauribile carica emotiva di due donne così diverse eppure così vicine, le porterà ben più lontano di quello che avrebbero sperato, superando ostacoli che sembravano insormontabili e inseguendo passioni e ambizioni che le condurranno su un cammino che  le vedrà protagoniste di un nuovo destino. Troneggia un’intensa e sensuale Cate Blanchett, irrequieta come le sigarette che fuma, in un film elegante e raffinato che trasuda magia e sentimento. Viscerale.

giovedì 15 ottobre 2015

INSIDE OUT - Emozioni fuori di mente



INSIDE OUT, ultima deliziosa fatica della PIXAR, è un film delicato e ironico, permeato di quella gioiosa leggerezza infantile che commuove, ma assolutamente profondo da scavare con sapiente maestria e toccanti pillole di magia, negli abissi della mente di una bambina di 11 anni.
Riley è una ragazzina felice: vive con i suoi genitori nel Minnesota, si divide tra l’amica del cuore e l’hockey, insomma nulla sembra turbare la sua quotidianità, fino a quando la sua famiglia non sarà costretta a trasferirsi a San Francisco, gettandola nello sconforto totale.
Quello che avverrà nella roccaforte - non ancora salda - delle sue emozioni è tutto una rocambolesca scoperta e una meraviglia per noi spettatori.
Ci vuole davvero una fertile potenza d’ingegno e un raro talento creativo, per dare voce e corpo alla Gioia, alla Tristezza, alla Rabbia, alla Paura e al Disgusto e farli diventare (coraggiosamente) i veri protagonisti della storia, davanti a una consolle dei sentimenti sempre in bilico tra fazioni opposte e con un realismo impressionante.
Joy: solare, positiva e coraggiosa è la leader indiscussa del team (quella che preme i pulsanti per intenderci) ma se la deve vedere con Anger, sempre pronto a litigare, o con Fear, impaurito e inerte, o con Disgust sempre svogliata e infastidita, e ancor di più si trova a combattere con la radicata malinconia di Sadness, che inevitabilmente sembra remare contro l’energia del gruppo.
Il loro equilibrio verrà messo a dura prova dal cambiamento, dal subconscio, dai sogni, dal pensiero astratto, dal turbamento causato dalla fase di assestamento che sta vivendo la nostra giovane protagonista. Nel cammino alcuni ricordi resisteranno, altri spariranno risucchiati da un'aspirapolvere che nel fare il "cambio di stagione" deve dare spazio al nuovo.
Riusciranno i nostri Action Heroes dell'emotività a trovare una soluzione?
In questo difficile percorso non mancheranno incontri bizzarri con personaggi preziosi come Bing Bong (gatto, elefante e delfino insieme), una creatura immaginaria generata dalla fantasia: rosa e soffice come zucchero filato, guiderà Joy e Sadness dentro i sogni e gli incubi di Riley, sino a farsi da parte al momento opportuno. I tratti dei personaggi sono realizzati in maniera così efficace che già dalla locandina è possibile  coglierne subito la natura: non a caso Tristezza (Sadness), è blu, tonda e occhialuta, ma talmente goffa e simpatica che alla fine non potrete che adorarla.
La sua resistenza alla felicità, la sua pigra indolenza, sono solo apparentemente d’intralcio ma ci danno la misura di quanto sia importante essere (anche) tristi per poter vedere le cose da una prospettiva diversa.
Trovare un senso a ciò che ci fa soffrire è necessario e fa parte del processo personale di crescita, così come è impossibile nascondere la propria infelicità e tentare di soffocarla, prima o o poi farà sentire la sua voce.
Il senso del film è proprio questo, incoraggiare il pensiero positivo: nonostante la vita ci metta a volte a dura prova, non bisogna mai perdere la speranza perché prima poi Joy tornerà a prendere in mano i comandi. E Sadness sarà la sua più potente e fedele alleata.

venerdì 5 giugno 2015

YOUTH - LA GIOVINEZZA



I film di Sorrentino sono così: si esce dalla sala costernati, come quando ci si sveglia bruscamente da un sogno popolato da personaggi eccentrici, la cui esistenza sembrerebbe alquanto insignificante; vanno  metabolizzati a lungo e rivisti almeno un paio di volte, per godere a pieno di tutte le sfumature e per ascoltare con attenzione i dialoghi apparentemente insensati.
“Le emozioni sono sopravvalutate” afferma il protagonista, e lo sono così tanto da farle fuori dalla propria vita…ma è davvero così?
Fred Ballinger (interpretato dal bravo e longevo Michael Caine) è apatico e annoiato quanto Jep Gambardella: direttore d’orchestra in pensione, è un uomo che non ha più interesse per nulla, guarda indietro al passato ma nello stesso tempo lo rifiuta; non ha voglia di tornare a dirigere, respinge ogni proposta di scrivere, non ha un bel rapporto con la figlia (un simpaticone insomma). Dall'altra parte della barricata invece, il caro “vecchio” amico di sempre Mick Boyle (Harvey Keitel), un anziano regista ancora in cerca di consacrazione, aggrappato saldamente al passato, forse anche troppo. E poi tanti personaggi che si ritrovano in un lussuoso albergo di budapestiana memoria ai piedi delle Alpi, a vivere il proprio tempo con leggerezza, la stessa leggerezza, che in fondo, si farà mal di vivere e perversione.
Gli ospiti che abitano questo set onirico sono lì proprio per restituirci il senso delle emozioni: il potere del desiderio che permette al monaco tibetano di liberare la sua testa dalle leggi della fisica, la nostalgia per il passato del più grande calciatore della storia (un finto e se possibile ancor più sfatto Diego A. Maradona); un intenso Paul Dano nei panni del tormentato Jimmy Tree, il divo di supereroi che viene screditato da una tagliente e infinitamente bella Madalina Ghenea (Miss Universo); una figlia impegnativa, Lena, interpretata da un'ammaliante Rachel Weisz che, come tutte le donne ferite dall’amore, non aspetta altro che di lasciarsi andare nelle braccia di un campione di free climbing. Insomma ognuno cerca a suo modo uno spiraglio di felicità.
Youth è un film sulla la sacralità della giovinezza perché elogia la vecchiaia come un tempo maturo, un omaggio scomodo alla nostalgia che ogni tanto ti viene a cercare e ti obbliga a riflettere, sul tuo passato e sui giorni che restano. Anche in questa pellicola lo stile sorrentiniano è inconfondibile: onirico, visionario, barocco, irrimediabilmente lento e alla fine ineluttabilmente triste. O lo ami o lo odi, non ci sono vie di mezzo. I suoi frame sono quadri, o ti struggono e lasciano il segno o ti lasciano indifferente, è inutile discutere sulla mancanza di trama e sulla debolezza del soggetto. Non è questo il punto. Il punto è che la musica irrompe sulle scene, quasi quanto è dirompente la fotografia. E che un padre e una figlia riescono a dirsi quello che non si sono mai detti. Il punto è che il talento visivo del regista è indiscutibilmente suggestivo. “Tutto dipende da come metti il cannocchiale. Da che lente usi per guardare il mondo”. Lo stesso vale per questo film, usate tutti i vostri sensi e lasciatevi guidare. Vi piacerà.

mercoledì 4 febbraio 2015

EXODUS - DEI E RE



Christian Bale, per me è l'attore del secolo: camaleontico, eclettico, intenso, può interpretare qualsiasi parte in maniera eccelsa e restituire dignità ad un prodotto, considerato abbastanza mediocre dalla stampa.
Il film di Ridley Scott, che si ispira (molto liberamente), all'Esodo, il secondo libro dell'Antico Testamento, è un'opera in parte scomposta e disallineata forse con quelle che erano le aspettative che lo volevano come una rivisitazione de ‘I Dieci Comandamenti’, ma d’altro canto un regista opera con un approccio creativo e artistico assolutamente personale, quindi il rischio di esporsi alle critiche cresce maggiormente, man mano che ci si allontana dalla pura imitazione.
Exodus è un kolossal epico e già il genere di per sé fa pensare al peso di un prodotto che non può che essere eccessivo, sfarzoso, ridondante di eventi e fitto di misteri, intrecci, per non parlare poi del femmineo “trucco & parrucco” dei Consiglieri egiziani. 
La prima parte è sicuramente più lenta e descrittiva e racconta la storia di Mosè (Christian Bale) alla corte d'Egitto, amato dal Faraone Seti (John Turturro) e inviso a Ramses (Joel Edgerton), che vede in lui un rivale per la futura ascesa al trono, fino a quando dello sfortunato 'fratello acquisito' non vengono scoperte le vere origini, ebree, e lui viene esiliato nel deserto. Il successivo incontro con Dio, che ha le fattezze di un bambino (cattivello e capriccioso a dire il vero), lo esorterà a tornare in Egitto a reclamare i diritti del suo popolo. 
La seconda parte, invece, è molto più avvincente e senza pause, con un ritmo incessante in cui si passa dalle piaghe d'Egitto che si abbattono in maniera apocalittica sul popolo - in assoluto la cosa più sorprendente del film, che sembra quasi assumere dei connotati horror/catastrofici - alla rocambolesca fuga attraverso le acque del Mar Rosso, culminante in un suggestivo e pericoloso passaggio, al quale il regista affida un'impronta più terrena e realistica scatenata dalle maree e non da un miracolo (cosa che non mi aspettavo). 
Mosè più che un profeta, è un generale, un condottiero tanto carismatico quanto tormentato e pieno di dubbi, che si lascia andare anche a qualche parentesi romantica, che gli concediamo volentieri, considerando la bellezza esotica di Maria Valverde (la sua sposa). 
Il male è sempre vicino, così come la fede incarnata da un bambino, che rappresenta la purezza, la fanciullezza e l’inizio di un percorso che ammette l’esistenza di un dialogo tra l’uomo e Dio. Ritroveremo il “simpatico” fanciullo sul monte Sinai che esorta un ormai anziano eroe a incidere su tavole di pietra le leggi di Dio nei Dieci Comandamenti, mentre gli ebrei continuano il loro cammino. Quando vai a scomodare la Bibbia, qualche critica te la devi aspettare. Coraggiosamente ispirato.

venerdì 30 gennaio 2015

GONE GIRL - L'AMORE BUGIARDO


Questa storia di tradurre i titoli dei film, equivocandone il senso, è proprio una brutta abitudine: il punto focale della storia non è un “amore bugiardo” (che suona anche male) ma una moglie che sparisce misteriosamente e non si fa trovare. Detto questo, non è facile comprendere, se si tratta di una pellicola assurda e inverosimilmente confezionata ad arte, o di una perfetta macchina di genere impersonificata da una diabolica (e bellissima) Rosamund Pike.
Gone Girl, diretto da David Fincher è tratto dall’omonimo romanzo di Gillian Flynn, subito diventato un best seller e trasposto per il cinema dallo scrittore stesso e devo ammettere che è un thriller ben fatto, ipnotico, dall'atmosfera cupa, dai colori ‘freddi’, diretto magistralmente e ben fotografato nella provincia americana, di cui riproduce vizi e virtù. La storia narra di una giovane coppia trasferitasi da poco  in una piccola cittadina del Missouri da New York, Nick Dunne (Ben Affleck) e la moglie Amy (Rosamund Pike), che stanno  attraversano un periodo difficile, con un matrimonio in crisi per via della difficoltà della donna ad abituarsi alla nuova esistenza e a causa di una vita a due sempre più inesistente. Ben Affleck ‘in ombra’ per gran parte del film, non può che essere un partner perfetto,  con quel suo sguardo perso nel vuoto e questa volta quasi credibile nel ruolo del marito inetto e insensibile. 
Il giorno del quinto anniversario di nozze, Amy scompare e il primo ad essere sospettato della sua scomparsa è proprio Nick che si troverà suo malgrado coinvolto in una fitta macchinazione di eventi.
Amy lascerà in giro un diario fatto appositamente per essere trovato e preceduto da una serie di indizi e  fatti che accuseranno inevitabilmente Nick, sospettato, così, del presunto omicidio della moglie. I media si accaniranno in maniera brutale su questa vicenda e di volta in volta i personaggi diventeranno preda e carnefice, scambiandosi i ruoli; ma chi sia veramente Nick, che non sa quasi nulla della moglie e chi sia Amy che scrive così tanto, non lo sapremo mai nemmeno vicini alla conclusione. Dire poi se si siano mai stati innamorati rimane realmente un mistero. Lo scontato e poco fantasioso tema delle bugie in amore, quello della coppia già fallita che fa finta di non esserlo e, quello dei ricatti i psicologici ed economici che molte volte un partner fa all'altro, sono solo degli spunti da cui partire per ordire un piano di vendetta che solo una mente malata può partorire. Amy non è bugiarda, e Gone Girl non si basa solo su delle menzogne che i due continuavano a dirsi, ma sul fatto che la stupenda e apparentemente perfetta mogliettina di Nick, sia inequivocabilmente una persona malvagia e spietata. E non basta l'assurdo teatro allestito contro il marito, non basta l'omicidio a sangue freddo dell’altro ex fidanzato (omicidio commesso per  tornare a tormentare Nick credendo di averlo nuovamente in pugno), Gone Girl è la storia di una mente disturbata che ha come unico e grande scopo nella vita quello di dominare gli altri e fargli del male. E in questo senso il finale non vi lascerà delusi.. o forse si?! Magnetico e seduttivo.





giovedì 31 luglio 2014

SPAGHETTI STORY

Sarà che mi sono seduta all’Arena di Garbatella già ben disposta verso questa commedia dolce-amara, che sapevo aver riscosso un discreto consenso nonostante il low budget. Sarà che conosco Valerio, il protagonista, che è veramente un attore in erba, che faceva il cameriere in un noto locale in zona Ostiense e quindi tutto ciò rende ancora più credibile la storia di chi passa dal servire ai tavoli al grande pubblico in sala (cinematografica a questo punto). Sarà che ci sono gli Spaghetti di mezzo nel titolo come nel mio Blog, e il tutto rimanda a storie che trasudano semplicità e amicizia (a basso costo), ergo non potrei non promuovere Spaghetti story a pieni voti.
Il film, primo lungometraggio del regista romano Ciro De Caro, racconta a modo suo uno spaccato della precarietà giovanile, e lo fa in maniera genuina e autentica. Costato solo 15mila euro, per girarlo ci sono voluti solo 11 giorni ed è stato realizzato utilizzando una sola ottica, senza nessun primo piano e senza effetti speciali. In fondo non servono grandi mezzi per raccontare belle storie.
Il cinema italiano c’è, esiste e si fa con una buona sceneggiatura e un cast affiatato e brillante. La storia è quella di Valerio, un aspirante attore di ventinove anni che non riesce a sbarcare il lunario e si adatta a fare qualsiasi cosa, suscitando le ire dell'amico d'infanzia Christian, che è un pusher (stra-ironico e super simpatico) che fa affari con la malavita cinese e vuole trascinare l’amico nelle sue losche avventure.
La fidanzata di Valerio, Serena, ha una borsa di studio grazie a un dottorato di ricerca ma ad un certo punto comincia a sentire il richiamo dell'orologio biologico e non manca di farlo presente, scatenando non poche tensioni. C’è poi Giovanna, sorella di Valerio, che fa la fisioterapista e aiuta il fratello, cercando di farlo crescere e incoraggiandolo a prendersi le sue responsabilità. Ognuno giudica l’altro, ma è cieco di fronte alle proprie esigenze e potenzialità. A cambiare le loro vite sarà la giovane prostituta cinese Mei Mei (Deng XueYing), che li metterà inaspettatamente alla prova regalandogli un’altra prospettiva per vedere le cose. Nel panorama della commedia italiana contemporanea, in cui hanno quasi sempre la meglio gli allestimenti para televisivi popolati da giovani goderecci e festaioli, finalmente non ci tocca assistere alla solita vetrina di tatuaggi e depilazioni alla Francesca Arca e al racconto della vita di “figli di papà” che abitano in loft superaccessoriati in centro.
L'esordiente Ciro De Caro racconta il mondo dei giovani in modo assolutamente realistico, e lo fa con assoluta schiettezza rappresentando in maniera lucida l’umiliazione e l’apatia che la precarietà lavorativa provoca nei protagonisti, inducendoli a inibire i propri sogni, nel caso di Valerio, o scatenando il pragmatismo più spietato, nel caso di Christian. Valerio Di Benedetto e Christian Di Sante sono bravi davvero: hanno tempi comici impeccabili, l'uno nelle vesti di primo attore (primadonna), l'altro in quelle di caratterista (non perdetevi le sue perle di saggezza), hanno la giusta dose di umanità e ci hanno regalato non poche risate di qualità. Ma in questa storia il premio va alle protagoniste femminili, capaci di riscattarsi e di reagire in maniera eccelsa alle prove di scarsa virilità di maschi spodestati dal ruolo di capofamiglia: nonne, sorelle, fidanzate - si rimboccano le maniche con una concretezza e una solidarietà che le rende capaci di comprendere anche le situazioni più assurde, garantendo assistenza e protezione. Grazie per questo spaccato di vita, così sensibile e attento ai valori umani e ai rapporti interpersonali, all'unione che fa la forza, e al precariato che ti costringe a essere combattivo. Sempre.