venerdì 8 gennaio 2016

MACBETH


Se non fosse per l’intensa espressività di Michael Fassbender, che comunica con il solo sguardo la metamorfosi del suo personaggio (e che con un bagno nelle acque torbide e gelate della Scozia  vale da solo il prezzo del biglietto), sarebbe difficile digerire un tale “polpettone”: un ibrido poco convincente a metà strada tra 300 e Braveheart.
Deduco sia alquanto complicato ridurre la trama di uno dei capolavori di Shakespeare, e il regista Justin Kurzel cerca di riportare fedelmente sul grande schermo l'intera storia, conservando nella loro interezza (e complessità linguistica) i dialoghi shakespeariani: ma che fatica seguire! 
Purtroppo questo contributo si limita alla messinscena della tragedia shakespeariana, in una Scozia selvaggia e arida, che sembra l’anticamera dell’inferno: per il resto l'adattamento è talmente fedele e devoto al testo da risultare convenzionale e poco originale e, nonostante sia viva e fiammeggiante un’estetica impeccabile, questa di certo non semplifica la complessità dialogica dell’opera teatrale.
Non mi soffermerò particolarmente sulla trama, che vi consiglio di approfondire se avete intenzione di vederlo (per amanti di Shakespeare s’intende), ma è interessante invece cogliere l’aspetto umano (o “disumano” sarebbe il caso di dire) del personaggio Macbeth che, da valoroso condottiero cede alla propria sete di potere per seguire la profezia che lo ha indicato come il futuro re di Scozia, fomentato da una moglie ambiziosa e senza scrupoli che lo porterà ad impazzire e a trasformarsi in un mostro assettato di sangue.
Un’ ascesa al trono che peserà non poco sulle coscienze dei due protagonisti, con l’uccisione del re in carica, e che invocherà una serie di ulteriori delitti sempre più efferati, poiché l’uomo, divorato da dubbi e paure (e tormentato da visioni inquietanti) vedrà  ostacoli in chiunque e cercherà di eliminarli uno ad uno.
Magnetica l’interpretazione di Marion Cotillard, nella parte di Lady Macbeth, moglie dalla maternità frustrata, il cui volto apparentemente angelico cela un'anima corrotta e contaminata dal male, e il cui obiettivo primario è manovrare il marito come una marionetta.
Dal punto di vista della tecnica e dell’estetica, l'utilizzo della slow motion nelle sequenze di battaglia, la desaturazione dei colori, la studiata lentezza dei movimenti contribuiscono in misura essenziale a rafforzare il sanguinario percorso di Macbeth e restituiscono sicuramente una sorta di dignità all’opera; ma l’azione, tra studiati rallenty e virtuosismi scenici, non concede spazio alle emozioni che risultano addomesticate in una sceneggiatura troppo rigida con una ridondanza verbale eccessiva, impantanandola in un prodotto troppo ‘formale’.
Il senso di inevitabile e tragica astrazione dalla realtà, l'ossessione per il potere che si manifesta in sete di distruzione, il Castello che sembra evocare una prigione dell’anima, la foresta di Birnam, che nel finale 'avanza' contro Macbeth: sono tutti segnali che la figura umana si è dissolta definitivamente, mentre si spalanca un inferno di fuoco e di sangue, ma tolto questo aspetto “fantasy” rimane ben poco. E nell'epilogo, durante il duello conclusivo fra Macbeth e il suo giustiziere Macduff, i filtri rossi della fotografia imprimono il carattere di un'opera coraggiosamente visionaria ma troppo essenziale. Scarno. 

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